E chi è Marco Lavagetto, in fondo?
Lui è molto ambiguo, è difficile capire con chi si stia parlando, perché ha tante personalità. Però ha trovato in me qualcuno disposto ad ascoltarlo e accogliere il suo racconto. Io penso che in un certo senso ha anticipato i tempi con questi quattro personaggi. Adesso, grazie agli anni e al distacco, si può anche sorridere di alcuni aspetti che all’epoca avevano tutto un altro significato.
Sicuramente una personalità dalle mille sfaccettature. Hai mai avuto paura di essere truffato anche tu?
Quella paura c’è sempre, ma alla fine, come dire, è tutto un gioco. Siamo tutti dentro in questa grande truffa. La vedo come una questione universale, in fondo.
Il Complotto di Tirana, di Mnafredi Lucibello. Credits Clara Vannucci
Manfredi Lucibello, libero dagli schemi
Nel documentario, pur restando fedele al genere, si respira un forte senso di libertà sia nella regia che nella narrazione. Quanto è stato importante per te raccontare questa storia a modo tuo?
È stato fondamentale. Abbiamo girato tutto con gioia, con il senso di essere liberi, senza confini. Avevo voglia di costruire questo film con calma, dedicandomi alle riprese e al montaggio senza interruzioni. È stato un vero lusso poter lavorare così, per ragionare su ogni scena e darle risalto.
Sono anche un insegnante di cinema all’Accademia di Belle Arti, e questo progetto va contro ogni schema classico del cinema: regole, rigore. La storia richiede libertà; davanti a un tema simile non si può essere rigorosi. Se questo film racconta una truffa, l’unico modo per farlo bene è quasi “truffare” lo spettatore. Alla prima proiezione, ho capito di esserci riuscito. Molti spettatori sono usciti dalla sala chiedendosi se anche Lavagetto fosse una “truffa”. Ma in realtà, è lui l’unico davvero autentico in tutta la storia. Anzi, proprio nella sua unicità potrebbe essere l’artista per eccellenza.
E dietro c’è stata una produzione che ha creduto nella tua visione.
Sì, Small Boss, una realtà interessante. Abbiamo deciso di affrontare il progetto senza pressioni di tempo o logiche commerciali. Lo abbiamo completato giusto in tempo per Roma, e avere qualche momento in più per lavorarci è stato meglio. Immergerci in questa storia è stato davvero divertente.
Ma anche il supporto dell’Emilia Romagna Film Commission è stato fondamentale. Sono stati i primi, insieme a Small Boss, a credere nel progetto. La Regione è stata la nostra base operativa quasi per la totalità delle riprese.
Un progetto senza confini
Questa vetrina romana è un bel punto di partenza per il documentario.
Ah, senza dubbio. E da qui proseguiremo. Siamo felici di essere anche al Festival dei Popoli, che chiuderà con il nostro film il 9 novembre. Poi il film continuerà: abbiamo già richieste per lo streaming e faremo un piccolo tour nelle sale a partire da gennaio. E qualche sguardo al Tirana Film Festival l’abbiamo dato… chissà, sarebbe davvero interessante!
È la prima volta che porto un documentario a Roma. Essere nella sezione Freestyle, che è dedicata proprio a nuove prospettive, all’arte, a modi diversi di raccontare dona un certo valore alla pellicola. È importante celebrare questo genere e questi progetti alternativi.
Hai altri progetti in corso?
Sì, sto scrivendo il mio nuovo film per il cinema. Ho avuto un periodo molto fortunato: in parte, è stato un “frutto” della pandemia che mi ha permesso di scrivere tanto. Ora torno alla scrittura e magari, chissà, tra un po’ qualcosa prenderà forma. Siamo comunque in piena fase di scrittura, è un momento bellissimo, di transizione.
Tirando le somme, cosa rappresenta oggi Il Complotto di Tirana per te?
È una celebrazione dell’arte che, pur prendendosi un po’ sul serio, rimane un grande inno alla libertà e alla vita.