Presentato alla Festa del Cinema di Roma, Italo calvino nelle città è un documentario diretto da Davide Ferrario e scritto insieme a Marco Belpoti. Con Valerio Mastandrea, Alessio Vassallo, Filippo Scotti, Violante Placido e distribuito da RS PRODUCTION in collaborazione con MIRARI VOS, In sala dal 28 ottobre.
In occasione del centenario della sua nascita, un film che ripercorre la vita di uno degli scrittori italiani più amati. Attraversando le sue città, visibili e invisibili, guidati dalle sue stesse parole.
La prima domanda nasce dalla riflessione dello stesso Calvino che apre il documentario:
“L’unica cosa che avrebbe davvero voluto insegnare è quella di avere un modo di guardare le cose, e dunque di stare al mondo”.
Qual è il suo modo di guardare Calvino e come l’ha trasmesso nel documentario?
Davide Ferrario
Tanto c’è da dire e sottoscrivo totalmente quella frase di Calvino. Il mio mestiere di regista nasce dal fatto che io guardo, ed ho la fortuna di aver costruito un mestiere anche su questa capacità di guardare e di replicare lo sguardo di quel che vedo dentro i film.
Credo che sia un’attività sottovalutata il guardare, sembra così facile come parlare d’altra parte, ma dire delle cose intelligenti non è. Ascoltare, il silenzio, c’è tutta una serie di cose che oggi sembrano date e invece no, occorre consapevolezza. Quindi che Calvino partisse da questo era il dato fondamentale, un film sul guardare dunque, un guardare che però è un ricostruire uno sguardo che si è trasformato in parola.
Il film è strutturato in due grandi vie narrative: la prima è vagamente documentaria tradizionale, anche se ci sono gli attori che interpretano le sue parole, è una parte che cerca di ricostruire il luogo in cui è vissuto lui e poi c’è la parte più immaginifica, che è quella delle città invisibili. Lì mi sono detto, con un po’ di immodestia e incoscienza, che se volavo basso avrei fatto, voglio dire, un dispiacere a Calvino prima di tutti. Io credo che i classici bisogna affrontarli con irriverenza, con un po’ di follia. È bello giocare con i classici proprio perché te lo consentono di fare, se ti metti in soggezione con loro alla fine fai un compitino.
Quindi l’idea è stata quella di provare a ricostruire, immaginare quegli elementi astratti che c’erano nella scrittura di Calvino e le città invisibili, e di tirarli fuori nelle città. Andare a trovare luoghi che, o perché sono stati abbandonati o perché sono decontestualizzati, li vedi senza la gente. Quasi tutti questi posti non sono vissuti, riesci a vederli meglio come se fossero una fotografia, come se la fotografia ti restituisse il senso del luogo.
Da lì avendo trovato un tot di location, cercare nel libro le città invisibili che avessero una qualche assonanza con quei luoghi. Questo è stato il modo in cui ho cercato di procedere, per cui è un po’ un lavoro in sottrazione piuttosto che un lavoro ad aumentare lo spazio di Calvino, come ci insegna lui stesso nella scrittura.
Ecco una cosa che ho scoperto è che i libri di Calvino sono piccoli, brevi, però se tu li leggi, e io per fare il film ho dovuto leggerli e rileggerli, è incredibile la capacità di sintesi e di pregnanza che c’è in ogni frase di Calvino. Non c’è una parola, una sillaba di più, ma c’è veramente tutto, ha ragione quando dice che c’è bisogno leggere ad alta voce.
Valerio Mastandrea
Come dovremmo imparare invece noi a guardare Calvino oggi?
Marco Belpoti
Imparare dagli altri è sempre facile e difficile al tempo stesso, perché noi non siamo gli altri.
Quindi quello che prendiamo dagli altri è un’idea, un’immaginazione, delle parole, uno stile, una imitazione. Noi non siamo gli altri. Imitiamo gli altri o li riproduciamo, o copiamo, o ci paragoniamo con gli altri.
È molto difficile da dire, ci si domanda, cosa avrebbe detto Pasolini? Cosa avrebbe scritto Parise? È impossibile dire cosa avrebbe scritto Calvino, anche se è vero che esistono degli stilemi, delle forme espressive, dei modi di ragionare, delle modalità d’essere, di scrivere, che sono proprie di Calvino. Allora, quali sono i criteri di Calvino? Calvino è uno scrittore molto illuminista, molto razionalista, ma non dimentica mai l’altra faccia della Luna. Cioè tutto quell’aspetto che noi chiameremmo il fantastico, l’immaginario, l’immaginifico.
Tutto l’elemento imponderabile, creativo, brutta parola, ma questo è l’elemento. Quindi, diciamo, Calvino insegna una dualità e una duplicità. È sempre due cose, non è mai una sola cosa.
A differenza di Pasolini. Pasolini è molto più compatto, è molto più ficcante, è molto più diretto, è molto più problematico nell’atteggiamento. Calvino dice, beh, le cose stanno così, ma potrebbe anche essere il contrario.
Filippo Scotti
Qual è il processo che trasforma le migliaia di pagine da lui scritte condensandole in un’ora e venti? Il passaggio dalle parole e le immagini.
Calvino ci ha insegnato che la cosa più importante nello scrivere è ciò che lasci fuori. Devi sapere cosa lasciare fuori, perché non ci sta tutto. Quindi, diciamo, prendendo un principio calviniano della economicità, della essenzialità, della chiarezza, della pulizia, della precisione, abbiamo ritagliato delle parti che ci sembravano funzionanti e funzionali, sia con la scena che si voleva rappresentare, il luogo, il tema, sia anche con l’attore o con l’attrice, nel caso della Placido.
Quindi abbiamo preso delle parole di Calvino, sono state tagliate, rimontate, incastonate dentro, in maniera tale da dare che cosa? Atmosfere. L’atmosfera è bellissima, perché è come quando uno entra a casa di una persona e vede la tovaglia perfetta, è una casa magari poverissima, c’è il mazzo di fiori perfetto, giusto, i colori. La cura del dettaglio.
La cura del dettaglio, ma anche di questo elemento che è l’atmosfera. Uno entra in un luogo e dice ma che bella atmosfera che c’è qua. Quindi è stato quello, diciamo, l’accordo tra le parole e le immagini è un problema di atmosfera.
Ognuno di noi ha un legame particolare con le opere di Calvino, molto intimo, se vogliamo, e personale. Qual è il suo legame con lui?
Beh, è un autore che io ho letto da ragazzo e poi, diciamo, ho cominciato ad andare alle scuole elementari nel 1960 e quindi man mano uscivano certi libri e li venivano comprati.
Quindi, Calvino è nato nel ‘23, quindi non posso corrispondere, ma da un certo punto in poi è stato lo scrittore che io ho seguito libro per libro fino a che non è morto, insomma. Quindi è un rapporto, diciamo anche, di essere coetaneo. Coetaneo dei suoi libri, non di lui, ovviamente, perché è di un’altra generazione. Però mi sento coetaneo.
Alessio Vassallo
Il lavoro di Calvino è simile a quello di un orafo, che incastona ogni singola gemma all’interno del suo gioiello, per renderlo perfetto. Troppo spesso invece oggi viene usato un tono ricercato per una questione per lo più egocentrica. Un tentativo di dimostrare a tutti i costi, arrancando, il proprio valore anziché sostenere l’importanza di quello che effettivamente poi si va a raccontare.
Proprio a questo proposito Calvino, e questo lo si vede dal materiale che conserviamo, era estremamente restio a farsi intervistare e a parlare in prima persona di se stesso.
Quanto è importante però scoprire e capire quella che è la vita oltre gli scritti di una personalità come Calvino?
Davide Ferrario
Guarda, questo è uno spazio interessante, domanda giusta. Io ho fatto due anni fa un film su Umberto Eco che peraltro avevo conosciuto anche personalmente. Quando fai un film e metti in scena la persona in carne ed ossa, perché inevitabilmente lo fai, entri in uno spazio che è spurio. Non è più quello dell’autore e basta, ma non è neanche quello della persona e basta, è qualche cosa che sta in mezzo.
Quello che si proietta è un’altra faccia dello scrittore, è un’idea che non hai modo di mostrare con un altro medium, cioè il cinema tira fuori anche quest’aspetto della persona. In Calvino mi ha colpito molto il fatto che, contrariamente a Eco, il cui film che ho fatto poteva durare anche quattro ore perché sarebbe stato comunque interessante, Eco lo saresti stato ad ascoltare all’infinito, Calvino con le interviste faceva veramente fatica, ma è una fatica fisica anche ascoltarlo e andando avanti con l’età peggiora, anche a causa poi dell’ictus eccetera.
Le ultime interviste sono davvero quasi al limite dell’incapacità di parlare e quindi se tu fai parlare Calvino per come parlava è un boomerang. Lo uccidi col suo strumento: la parola. Per questo ho cercato di tirare fuori un Calvino diverso che fosse, almeno io l’ho visto in lui, una sorta di Mr. Bean. Molto spesso lui ha degli atteggiamenti ironici, comici, anche proprio per difesa di questo, per difendere la sua fragilità. Quel mezzo sorriso, quella cosa lì, ce l’aveva tantissimo.
Mi ha permesso di cogliere il suo essere brillante, assolutamente incredibile ed era lì appunto. Però ti dico questi aspetti bisogna tirarli fuori dalla faccia più che delle cose che diceva, perché la comunicazione ha mille sfaccettature anche il primo luogo quella non verbale.
È paradossale per una persona che ha fatto delle parole e dello scritto la sua vita, ma se fai un film devi essere molto consapevole di questo.
Diciamo che attraverso questo film lei è riuscito a vedere e magari a mostrare ciò che Calvino non era in grado di mostrare?
Guarda mi fa molto piacere. È un po’ quello che è successo anche con Eco, dove è stata la famiglia stessa a chiedermi di fare il film, ma loro stessi hanno ammesso che non si sarebbero aspettati un film in cui riconoscere Umberto come lo conoscevano loro.
Giovanna Calvino mi ha fatto sapere lo stesso, il film è molto piaciuto. Lei anche molto restia a concedere materiale perché Calvino è comunque molto sfruttato, ma mi sembra che sì, siano riusciti a dire qualche cosa su di lui anche come essere umano oltre che come scrittore e le due cose poi vanno insieme.
Violante Placido
Intervista a regista e attori di Napoli – New York con Favino e Salvatores
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