From Ground Zero è una raccolta di cortometraggi supervisionata da Rashid Masharawi su iniziativa del Masharawi Fund for films and filmmakers in Gaza e in collaborazione con Coorigines Production. L’antologia del regista palestinese, originario di Gaza, riunisce ventidue promettenti cineasti chiamati a testimoniare le storie di uomini e martiri nella guerra tra Hamas e Israele.
Il film, selezionato per gli Oscar 2025, è presentato come evento speciale al Torino Film Festival nella categoria Zibaldone.
Torino Film Festival – Torino Film Fest
Il progetto di Rashid Masharawi nasceva dalla volontà di far sentire una sola voce, che sovrastasse quella dei media, dei droni e delle ambulanze, la voce della Striscia di Gaza. L’eco del messaggio di Gaza viene fatto ascoltare per ventidue volte, per quasi due ore di durata, e ciascuna volta è come se fosse la prima. Ogni cortometraggio ha il proprio titolo, la propria favola da raccontare, ma nessuno di questi brevi film trasmette una morale, né vuole istituire nemici o amici. Il nemico è uno, comune, la morte, e non c’è bisogno di fare differenze.
«Questa volta ho lasciato lo spazio a uomini e donne che fanno i loro film qui, perché loro sono al tempo stesso quelli che fanno il film e lo vedono. E, poiché le televisioni, quello che appariva sui media, raccontavano tutti i giorni gli eventi quotidiani, noi abbiamo voluto raccontare le storie non raccontate, quelle ancora sconosciute»
Il fil rouge non è solo la morte, ma anche il mare, compagno di solitudine.
Vicino e lontano
La scena si apre con il mare mosso. È quello di Selfies di Reema Mahmoud. Il suo mare è forte, rumoroso, la cui brezza è possibile sentire persino attraverso lo schermo. «Caro amico», inizia, «ti scrivo questa lettera che spero leggerai mentre sono ancora viva». E a scriverla è una donna. Una lettera destinata a un amico ignoto, dove ella racconta la propria giornata, dal proprio risveglio nella tenda in cui dorme, sogna, vive, alle lunghe attese ai bagni pubblici. Fino alla spiaggia, dove può vedere un pezzo di mare, sedersi a scrivere il suo messaggio di speranza.
Nella speranza, pur piena di sofferenza, di un “cessate il fuoco”, la donna avverte il suo amico di sponda lontana dello strano contrasto tra il giorno e la notte: durante l’uno, attende impaziente l’altro, per sfuggire alla realtà bagnata dal sole, illuminata fin nelle sue zone più buie e morenti.
Al contrario, durante la notte, aspetta sempre che ritorni il giorno, così da abbandonare il pensiero del silenzio improvvisamente scosso dal vagabondare di una bomba.
Uno scorcio di vita, tristemente raccontata non solo dalle parole della protagonista (interpretata dalla stessa regista), ma anche e soprattutto dalle immagini. La macchina da presa pedina con insistenza le persone, le folle, gli sguardi e da tutti questi coglie frammenti di vita, di speranza e di desiderio. Il messaggio in bottiglia è un monito della coscienza, è il risveglio e l’intorpidimento degli arti, è la fiducia nel futuro.
Prima che la bottiglia lanciata tocchi la superficie del mare, lo schermo si fa nero. Chissà se quel messaggio si fermerà mai ai piedi di qualcuno, su una spiaggia lontana, carezzata da un mare calmo e straniero.
Sotto le macerie: i corpi pesanti e abbattuti
Come si fa a vivere sotto il crollo di una città?
Si può vivere come il protagonista di No Signal. La regia di Mohammad Al Sharif nel suo corto immortala con spigliatezza cinematografica, ricercando il dettaglio e la sfumatura, il disagio dell’essere umano nel proprio senso di sconfitta, che spesso conduce a un agire irrazionale.
O si può vivere come Ahmed Hassouna, che dirige e al contempo interpreta il cortometraggio Sorry Cinema, un film di commiato alla settima arte. Hassouna dice: «La mia vita era diventata una maratona, correvo dietro al cinema, cercavo film e fondi per realizzarli». Ma adesso, continua, «la mia vita è diventata un diverso tipo di maratona. Ora corro per avere salva la vita mia e dei miei cari», e lo racconta con la sua macchina da presa, in mezzo al fumo e alle polveri sollevate da una casa appena rasa al suolo.
La gioia di fare film gli è stata portata via, prima sperava di avere 48 ore in un giorno. Mentre, adesso, vorrebbe che queste si accorciassero. «Per il momento ti abbandono, cinema, tu che mostri la fame del popolo».
Ecco che arrivano gli aiuti, dal cielo, come tante piccole mongolfiere, e la gente affamata si accalca, raccoglie la farina caduta a terra. Farina e sabbia, nelle loro borse, per avere un po’ di pane.
Un’inquadratura dal cortometraggio ‘Sorry Cinema’
Ma sotto le macerie c’è anche la vita ritrovata
Nel clima della guerra è impossibile non sperare che qualcosa, anche per poco, possa migliorare, e ritrovare vecchio vigore. In Flashback, Islam Al Zeriei ci porta a conoscere una ragazza, che durante una notte perde la casa, mangiata dall’oscurità e, infine, sommersa dai detriti. «Non puoi fare nulla. Non hai il tempo di piangere né di reagire. È impossibile. In quel momento, ciò che voglio fare è salvare me stessa». Sono, dunque, la musica, la danza e il disegno che impegnano le sue giornate da quando ha perso tutto, che tengono la sua mente lontana dal ricordo di qualcosa che non potrà più riavere com’era prima.
La regia di Islam Al Zariei coglie la dissonanza tra la giovane di ora e quella di qualche giorno fa, tra la ragazza che danza rasserenata al tramonto e quella che con i polmoni impolverati gridava «Sono ancora viva, sono ancora viva», mentre la sua casa, il suo santuario, crollava in pezzi.
Persino un comico trova spazio in un campo di rifugiati dalla guerra. E può tornare a far ridere, a intrattenere e a occupare i pensieri delle persone. Così ci racconta Nidal Damo con Everything is Fine, che segue didascalicamente la giornata di uno stand-up comedian, intento a prepararsi per uno show.
Il voice over che traduce i pensieri del comico ci guida negli spazi e nei tempi di una nuova quotidianità, turbata dalla distruzione. Al Nuseirat, il luogo più caro al protagonista, si presenta a lui sotto una luce diversa, quella naturale del giorno, che crudamente esibisce i segni della devastazione. La cravatta nera al collo del comico si disfa, non c’è eleganza in quel che vede e il suo abbigliamento risulta essere fuori luogo.
Ma, come si dice, “The show must go on“. E le risate, la musica, la gioia della compagnia sono salvifiche in una simile situazione. Così, come i due menzionati, anche No di Hana Eleiwa è un richiamo alla felicità. La musica è l’essenza dell’uomo, che lo fa sognare e librare in volo. E lo libera, in un girotondo di mani e sorrisi.
Echi lontani e lontani ricordi
Echo di Moutafa Koulab sviluppa, in un unico piano sequenza, un dialogo tra il mare e il vento, tra il ricordo e la perdita. Un uomo, seduto sulla sabbia al tramonto, è circondato dall’eco che le onde rimandano indietro dei suoi stessi pensieri.
Poi, i ricordi si mischiano alla realtà, o forse è il desiderio che offusca la vista e fa sospirare per qualcuno che non c’è più. È il bambino di A School Day di Ahmed Al Danaf, sofferente per la morte della sua insegnante. Ogni giorno, con lo zaino in spalla ricolmo di libri, matite e pastelli, cammina fino a uno spoglio cimitero. Siede vicino a due pietre, tra le quali è incastrato un pezzo di cartone, qui erto a lastra funebre.
E se la scuola è quel che manca ai bambini, allo stesso modo ai maestri e alle maestre mancano gli scolari. The Teacher per la regia di Tamer Nijim, è esemplificazione del senso di smarrimento che una guerra può generare. Dopo una giornata di delusioni, passata senza aver trovato né cibo né acqua, il professore fa ritorno alla propria tenda. Ma sul tragitto incontra un vecchio studente, che gli ricorda un passato lontano, troppo, forse, per poterlo afferrare di nuovo.
Stop-motion e i bambini di Gaza
Un uccellaccio nero afferra un palazzo e lo lascia cadere a terra, mandandolo in mille pezzi, come cocci di terracotta. Poi ne prende un altro e lo piega alla medesima sorte, fino a riempire il suolo di tanti frantumi, tessere di un puzzle da ricostruire. I bambini si divertono con i lavoretti, a tagliare e incollare cartoncini colorati. Ma dietro i loro sorrisi e i loro innocenti disegni si celano le ombre della paura e del pianto.
Questo è Soft Skin, realizzato da Khamis Masharawi per ricordare che anche i bambini, le “pelli delicate” appunto, sono vittime e martiri di questa guerra. «Quando il bombardamento inizia», dice uno di loro, «mia mamma si agita nel campo per il panico. Lascia cadere tutto quello che ha in mano, lo fa cadere e questo si rompe. Lei rompe ogni cosa».
Ed ecco il teatrino: la storia, che accoglie in sé tutti i racconti dei bambini rifugiati, è di due fratelli. Sulle loro braccia e gambe sono stati scritti i loro nomi dalla madre, così che venga reso più facile riconoscerli se la loro tenda sarà bombardata. Come i personaggi cartonati i cui arti sono separati dai loro corpi grazie a dei chiodini, che li rendono semoventi, così anche i bambini sono fatti a pezzi, ciascuno dei quali viene “nominato”, catalogato, come parte salvabile di un intero.
E poi ci sono Jad and Nathalie, le cui brevi storie sono raccontate dal padre nel corto di Aws Al-Banna. E anche Farah and Myriam, che grazie a Wissam Moussa trovano lo spazio per dare notizia della loro neo-normalità, del compianto dell’una e della salvezza dell’altra.
In Charm, invece, Bashar Al Balbisi decide, sì, di raccontare ma attraverso le immagini e le musiche sovrapposte. Una sorta di videoclip, dove la corsa di una ragazzina tra le vie della città si trasforma in un viaggio nella sua mente e di quella di migliaia come lei. E, di nuovo, il mare si apre immenso davanti ai suoi occhi chiusi, sognanti, di bimba.
Un’inquadratura dal cortometraggio ‘Offerings’
L’ultimo scoglio prima dell’orizzonte
Ciò che accomuna i cortometraggi Overburden di Ala’a Islam Ayoub, 24 Hours di Alaa Damo, Hell’s Heaven di Karim Satoum e Out of Frame di Neda’a Abu Hassnah è la pazienza, una virtù che quasi tutti sembrano aver dimenticato di possedere, ma che si rivela fondamentale quando si è costretti da situazioni del genere a patire il tempo che scorre. Sopportare, aspettare che passi, ma resistendo. Ritorna, così, il tema “Ecologies of Resistance“, che ha dato il La a questa rassegna di film del festival Middle East Now.
Overburden è il peso dei libri, un bene non necessario ma associato a regno di pace e serenità, purtroppo ora troppo lontano. 24 Hours è una storia di triplice morte e resurrezione di un uomo nell’arco di sole ventiquattro ore. Hell’s Heaven è l’ironia della sorte, è svegliarsi, da vivi, dentro un telo in plastica adatto solitamente ai morti. Out of Frame è il rimpianto dell’arte, che, come in Sorry Cinema, non trova più espressività in mezzo alle guerre.
Sperimentazione e “risveglio”
L’acqua ha tante forme, tanti modi per essere usata ma, quando l’acqua è poca, è indispensabile che non venga sprecata. Recycling di Rabab Khamis illustra il percorso del liquido, da una cisterna a una tanica, a un secchio dentro cui si lavano i corpi e i vestiti, fino al water, dove il ciclo riprende.
“Frammenti” di realtà sensibile sono quelli estrapolati dall’occhio cinematografico di Basel El Maqousi con Fragments. Un’opera sperimentale, visionaria di un luogo nel tempo e nello spazio, dove è nuovamente l’arte nel ruolo di protagonista. I disegni realizzati a carboncino illustrano le sensazioni, le riflessioni e le timidezze dei rifugiati: un bambino che gioca con un aquilone, i canti delle persone nella folla, il macellamento di un animale dove solo il sangue assorbe colore, mentre il resto è immerso in un eloquente bianco e nero.
Taxi Wanissa di Etimad Washah riporta il viaggio di un carretto trainato da una mula, Wanissa. Ma la storia si interrompe, e allora è proprio la regista a intervenire, toccando una tragica vicenda personale che l’ha dilaniata durante le riprese del suo cortometraggio. Come a dire, la morte potrebbe arrivare a chiunque, ovunque, in qualunque momento, senza preavviso.
Ed è con Offerings di Mustafa Al Nabih che diviene lampante il bisogno, il desiderio – o la fortuna – di salvezza. Perché fino a quando le vittime, i martiri, saranno considerati meri numeri, “offerte” votive a un dio inesistente, allora non si potrà pretendere salvezza. La protagonista è una donna, scrittrice, che intorno a sé vede la miseria, mentre lei vorrebbe narrare di speranza e vita e amore. «Trasferitami, improvvisamente mi sono trovata da una vita all’altra, come se avessi aperto una porta che proietta in un altro tempo, pieno di tende e di persone tristi, di volti sporchi di polvere, di strade allagate dalle fogne».
La rassegna si conclude con uno splendido corto intitolato Awakening, che, come svegliatosi da un brutto incubo, fa scoprire a un padre di famiglia di aver ritrovato la memoria, in seguito ad averla perduta a causa di un’esplosione. Il cortometraggio di Mahdi Kreirah è realizzato con delle marionette fatte di avanzi di scatolame e vari altri oggetti di riutilizzo. Il padre è abbracciato dalla moglie e dal figlio, che incontra per la prima volta dopo esser rinsavito dall’amnesia. Alla fine dello spettacolo, vengono svelati i veri volti dei burattini, che sono semplicemente mossi da dei fili. Eppure la loro finzione, nascosta dietro i fili e gli improbabili corpi di latta, riflette una verità fenomenica che non può essere facilmente smentita.
From Ground Zero il film che racconta la Palestina devastata dalla guerra sarà al TFF