Simón (2023) del regista venezuelano Diego Vicentini è arrivato sugli schemi della 7ª edizione del Festival del Cinema Iberoamericano di Firenze: Entre Dos Mundos. il festival mira a mettere in contatto il mondo latino americano e quello italiano, mostrando storie che crediamo di conoscere e altre che non conosciamo davvero. Questo è il caso dellungometraggio Simón che, senza edulcorare nulla, ci racconta la lotta per la libertà del popolo venezuelano, la repressione politica della dittatura di Nicolás Maduro ma soprattutto la drammatica situazione degli esodati. Divisi tra la ricerca di salvezza e il proprio paese che amano ma che non possono salvare dall’oppressione.
L’urgenza del racconto
Il film Simón è nato nel 2018 come cortometraggio conclusivo del corso di studi di Diego Vicentinialla scuola di cinema di Los Angeles. Nel 2017 il regista vedendo i video della repressioni che in quel momento stavano avvenendo in Venezuela, decise di raccontare la storia di un ragazzo richiedente asilo. Il cortometraggio fu completato nel 2018 e ricevette reazioni positive dal pubblico.
Diego Vicentini allora decise che la vita di Simón avesse bisogno di più tempo e spazio per mettere meglio in luce la complessità emotiva del personaggio. Così le riprese del lungometraggio iniziarono nel 2021.
Nel 2024 il film ha rappresentato il Venezuela nella 38ª edizione dei Goya Award nellacategoria Best Ibero-American Film. Da giugno 2024 è su Netflix in America Latina e Spagna.
Diego Vicentini
Lotta per la libertà del popolo venezuelano
Il nome Simón è un tributo al rivoluzionario Simón Bolivar, chiamato anche Liberador (liberatore) per aver contribuito alla liberazione della Bolivia, Colombia, Perù e Venezuela nel XIX secolo. Quindi, anche se la storia del Simón di Vincentini si basa su eventi reali avvenuti nel 2017 in Venezuela, Simón non è uno: lui è tutti coloro che hanno preso parte alle manifestazioni contro il regime di Nicolás Maduro. Le proteste, scatenate dalla decisione della Corte Suprema di assumere i poteri del Parlamento, durarono mesi, coinvolgendo milioni di cittadini. La risposta del governo fu una brutale repressione, con l’uso di forze di sicurezza e gruppi paramilitari. Oltre 120 persone furono uccise, migliaia arrestate o ferite, altre scomparvero e si registrarono gravi violazioni dei diritti umani. La crisi economica, la mancanza di cibo e medicine, spinse molti venezuelani a lasciare il paese, creando una delle più gravi crisi migratoria dell’America Latina.
Simón: non è stato abbastanza
Simón (Christian McGaffney) è un esule venezuelano a Miami, dove si rifugia grazie a un visto turistico. Nella penombra di una biblioteca con la connessione internet gratuita, decide di chiedere asilo politico. Questa scelta lo costringe a raccontare la propria storia a Melissa (Jana Nawartschi), volontaria e studentessa in legge.
In Venezuela Simón era uno studente universitario, un manifestante, un leader che organizzava la protesta. Incontrava i suoi compagni di lotta nelle aule dell’Università e insieme discutevano su cosa fosse giusto fare, su cosa potesse essere davvero cambiato e su cosa fosse impossibile trasformare.
Un giorno, tra di loro, la rassegnazione prende il sopravvento perché la violenza durante le manifestazioni è insopportabile. Simón che ha la responsabilità del coraggio dei suoi amici, li spinge a continuare a lottare, dicendo:
“Tutto inizia quando la gente scende in strada. E ora tocca a noi. Sapete qual è la cruda verità? Tutto ciò che è stato fatto negli ultimi vent’anni dalle generazioni precedenti, tutto quello che hanno sacrificato, tutti i morti… Amici, non è stato abbastanza.”
Il loro compito è quindi quello di andare avanti finché non sarà sufficiente. Quella stessa sera però Simón viene arrestato insieme al suo amico, Chucho (Roberto Jaramillo). Con l’arresto cambia tutto: i due vivono in prima persona la brutalità delle carceri sotto la dittatura di Maduro che li spezza.
Rivivere i traumi della propria storia, lo obbliga a confrontarsi con uno strappo emotivo che i sensi di colpa continuano a lacerare perché i suoi compagni sono ancora lì, in un paese dal quale ha deciso di fuggire.
La regia di Diego Vicentini: un racconto visivo tra caos e vulnerabilità
La regia di Diego Vicentini in Simón è impeccabilmente calibrata, priva di eccessi o manierismi, totalmente al servizio della narrazione e del protagonista. Attraverso il linguaggio visivo, Vicentini riesce a tradurre le intense emozioni di Simón: i suoi attacchi di panico, la costante ricerca di aria, e il peso dei sensi di colpa per aver lasciato il Venezuela.
Infatti uno degli strumenti principali utilizzati dal regista è la camera a spalla, che infonde nel film una forte sensazione di urgenza e precarietà. Questo stile visivo crea un clima di caos e vulnerabilità, riflettendo gli stati d’animo di Simón diviso tra i campi lunghi della sua vita in una assolata Miami dove cerca di ricominciare e i ricordi del passato che vorrebbe cancellare ma che ritornano con la prepotenza dei primi e primissimi piani.
Il montaggio: passato e presente sovrapposti
Il montaggio, curato dallo stesso Vicentini, segue un ritmo che si adatta alla narrazione. Le scene che raccontano la vita di Simón in Venezuela, specialmente durante gli scontri e le manifestazioni, sono dinamiche e veloci, sottolineando il pericolo e la tensione della lotta politica. Al contrario, quando la storia si sposta a Miami, il ritmo si ammorbidisce, rispecchiando la nuova vita di Simón, apparentemente più tranquilla. L’uso della luce segue questa stessa logica: i colori delle scene di lotta e sono scuri e cupi. Nelle scene girate nel carcere c’è pochissima illuminazione mentre le scene ambientate a Miami sono illuminate da toni più chiari e sereni, segnando il contrasto tra due fasi distinte della vita del protagonista.
I flashback sono fondamentali: il passato si mescola inesorabilmente al presente e viceversa, mostrando quanto sia impossibile per Simón lasciarsi alle spalle ciò che ha vissuto in Venezuela.
Quando Simón si rimette in contatto con i suoi compagni, Diego Vincentini, lo ricolloca di fronte a loro, nella stessa aula dove si riunivano. Ma Simón non è più in piedi, coraggioso e deciso. Simón è debole, con la spalle strette, pronto a essere giudicato seduto dietro un banco che sembra troppo piccolo. In questo modo si evidenzia la complessità emotiva di un uomo completamente schiacciato dai sensi di colpa per ciò che ha fatto e vorrebbe fare.
Simón – Christian McGaffney
Quello che resta di Simón
Il racconto che Diego Vicentini fa di Simón ci mostra tutte le sfaccettature del protagonista, la sua vita in Venezuela e un popolo che non sa più come sopravvivere. Se Simón è il Venezuela che lotta, Melissa è la comunità internazionale che non conosce la storia dei Simón che fuggono ma che quando la scopre si fa rete.
Si può iniziare una nuova vita? È questa la domanda che Simón continua a porsi fino alla fine del film che si conclude con un finale aperto. Forse perché rispondere non è possibile. Aiutare da lontano è sufficiente? Simón è tormentato dal senso di colpa e dall’idea di non essere stato abbastanza: non abbastanza leader, non abbastanza rivoluzionario, non abbastanza amico. È consumato dall’angoscia di aver abbandonato la lotta tornando a Miami, mentre gli altri continuano a rischiare la vita per la libertà del Venezuela. Quindi sembra un tormento troppo grande per avere una risoluzione.
Nei titoli di coda, tutte le persone di origine venezuelana che hanno lavorato al film hanno accanto al nome i tre colori della bandiera del Venezuela; Questo dimostra ancora di più che il film di Diego Vicentini è un’opera di verità sull’identità e il senso di appartenenza, temi dai quali non si può fuggire, anche quando il paese che amiamo sembra non volerci più.
Simón: la lotta venezuelana nel film di Diego Vicentini