Presentato in concorso nella sezione Orizzonti dell’81esima Mostra del Cinema di Venezia, Uno di quei giorni quando Hemme muore (Hemme’nin öldüğü günlerden biri), lungometraggio turco diretto dall’esordiente Murat Fıratoğlu, racconta un sentimento comune e quasi scontato con un equilibro stilistico raro e bagliori di profondità analitica: le intermittenze del cuore e le incandescenze dell’anima quando prevarica lo sconforto di una delusione, il fallimento di un rifiuto, la barriera di una piccola ingiustizia.
Radiografando le vibrazioni di un malessere esistenziale pressoché perenne, la regia, pennellando una poetica di piccole cose ed eventi impercettibili ma epifanici, non si ancora tanto alla forza degli interpreti o alle significative reticenze della sobria sceneggiatura (a firma dello stesso regista), ma alla costruzione dello spazio, alla messa a fuoco di una Turchia inedita, ariosa e lussureggiante di vita pur nella sua frugalità.
Una storia lineare in un girovagare senza meta
Eyüp è un giovane ragazzo turco impiegato in un campo dove si fanno essiccare i pomodori, sotto il sole cocente e un cielo di un bianco accecante. Irato per il ritardo della paga giornaliera, affronta il caposquadra Hemme. Questi, in preda a problemi personali, liquida sbrigativamente il protagonista. La tensione tra i due è palpabile e sfocia in uno scontro prima verbale e poi fisico. Eyüp lascia il campo di pomodori sulla sua moto, ancora in preda alla rabbia.
Quando il veicolo lo lascerà a terra, sarà costretto a vagare per il paese, incontrando vari personaggi. La telefonata del collega Nevzat non servirà a calmarlo; anzi, Eyüp elabora pensieri di vendetta e morte contro Hemme. Ma la giornata trascorre placidamente in mezzo agli altri, ai loro problemi, alle loro esistenze e Eyüp, risucchiato nel vortice ordinario della vita, metabolizza la sua frustrazione e placa i suoi famigerati propositi.
Tra prosa e poesia
C’è un paradosso cognitivo in Uno di quei giorni quando Hemme muore, lo sguardo su qualcosa di intimamente consueto senza averne la facoltà di esprimerlo; una vetta che sa raggiungere solo la poesia. E ancora, l’espressione precisa, partecipe e inedita di un sentire così routinario da essere assurto, apparentemente, a verità assodata, a una costante invisibile, a un mood labile e perciò dimenticabile: la gestione della rabbia e dell’umiliazione in momenti non del tutto trascurabili di effimera infelicità.
Il film si interroga sull’interazione di questa scivolosa condizione d’essere, universalmente condivisa tra le pieghe del quotidiano circostante, in relazione al consorzio umano, ignaro di queste intemperie emotive, a sua volta assorbito da altre consuetudini. Ma la quieta forza drammaturgica dell’opera risiede proprio nell’estrazione di quella segreta dolcezza del vivere quotidiano in grado di appianare, lenire, riscattare, che noi tutti ci troviamo con noncuranza ad assaporare.
Per citare il commento di Murat Fıratoğlu:
Una tipica giornata di ordinari divertimenti e preoccupazioni continua mentre Eyüp, arrabbiato per non aver ricevuto la paga e deciso a uccidere Hemme, è costantemente distratto con cose banali da cittadini ignari nel corso della giornata. In questo film ho cercato in particolare di esprimere come gli aspetti drammatici, tragici e comici di ogni comportamento umano siano in realtà banali. Alla fine, siamo tutti sulla stessa barca.
Viaggio al termine del giorno
Uno di quei giorni quando Hemme muore offre a noi e al protagonista un campionario di umanità varia ma non pittoresca, un flusso condiviso della vita che, sotto lo sguardo osservatore ma non languidamente contemplativo della cinepresa, non aspira a uno stucchevole lirismo, ma ingloba un’autenticità tattile nella virtù della sua carezzevole semplicità. In questo modo, ai pensieri di vendetta, rivalsa e morte di Eyüp si contrappone progressivamente la coscienza di un segreto sodalizio umano nel dolore multiforme che tutti attanaglia e tutti unisce. Come se, inoltre, la leggerezza delle piccole cose – un’anguria, un ricordo d’infanzia, le chiacchiere domestiche – si instillassero nel groviglio interiore come interstizi di salvifica distrazione e tenera alterità con cui bilanciare e ridimensionare le precarie storture dell’anima. In Occidente si citerebbero i celebri versi di Shakespeare tratti dal Macbeth:
Consumati, consumati, corta candela! | La vita è un’ombra che cammina, un povero attore | che si agita e pavoneggia la sua ora sul palco | e poi non se ne sa più niente. È un racconto | narrato da un idiota, pieno di suoni e furore, | che non significa nulla.
La morte dunque come un’ombra che si affaccia sulla piccola civiltà del film fin dal titolo, una presenza fantasmatica ma incombente che pare fluttuare fin dalle inquadrature di apertura per rannuvolarsi sempre di più nella mente confusa e nell’animo suscettibile e infiammato di Eyüp. Campi agricoli, estesi e bianchissimi che si amalgamo con il cielo altrettanto chiaro e che nel loro pallore di morte sembrano pressare sul rosso vivo e sanguigno dei pomodori essiccati, quelli raccolti da uomini che arrancano fino allo sfinimento. E nei loro movimenti energici di corpi troppo accaldati, nei piccoli dettagli della sceneggiatura (come l’insonnia che tormenta Hemme per le mosche) la regia di Murat Fıratoğlu accenna a un’osservazione di denuncia, anche se poi, come i bei film sanno fare, ci conduce altrove.
La spazialità delle ferite dell’anima
Fin dalle prime immagini Uno di quei giorni quando Hemme muore cesella una sua calibrata messinscena sullo spazio che diventa padronanza di linguaggio per intercettare la maturazione giornaliera del protagonista. Non solo tramite le scelte cromatiche del profilmico, dove al bianco e al rosso faranno spazio, nel pellegrinaggio di Eyüp, tocchi di colore più caldo e allegro, ma nell’orchestrazione di piani che, senza pedinare il personaggio stretto nella morsa del suo tormento rancoroso, lo inseriscono nell’ampiezza di campi medi o lunghi per farlo interagire con l’ambiente e soprattutto con il prossimo, in una placidità e fermezza di sguardo filmico dalla connotazione orientale, sempre alle soglie del rispettoso pudore, nel solco di una delicata accuratezza.
Cosa rechi direttamente salvezza nell’animo di Eyüp non è dato sapere apertamente dal racconto di Uno di quei giorni quando Hemme muore, se un uomo che non la smette di parlare, una moto rossa dell’86, una vecchia compagna di scuola, dove l’umanità del realismo delle immagini pare consegnarsi da sola al pubblico, mentre dietro a questo microcosmo di una Turchia umile ma vitale, variopinta ma tenue, si cela la mano vigile della cinepresa di questo regista esordiente.
Il film, inserendosi in una fortunata tradizione di pellicole incentrate sul viaggio a piedi, reso obbligatorio da un guasto o dalla perdita del mezzo, pare approdare a una piccola verità sulla vita passeggiando sul crinale della morte e della tragicommedia delle esistenze altrui, graziate dalle piccole banalità di ogni giorno. E così Eyüp, acerbo, non istruito e impulsivo, ma essenzialmente umano, come una signora Dalloway al maschile conquista al termine nel suo viaggio della coscienza un affrancamento interiore che rifulge di calma grandezza.