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Approfondimenti

Kristen Stewart, la diva che non c’era

Fenomenologia di un’attrice divisiva e cangiante: ex enfant prodige, idolo dei teen movie, simulacro del cinema d’autore, star riluttante, icona transmediale avversa ai social. Scrutata e bistratta, fluida e influente tra fashion system e festival internazionali: (anti)diva per caso delle contraddizioni del nostro tempo

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Kristen Stewart, ovvero esprimersi dentro al “sistema”, circoscrivendo per personalità e approccio recitativo una propria dimensione “off”. Flirtare per impalpabile fotogenia con la macchina da presa, appropriandosi dello spazio filmico con un carisma che trasuda ombrosità e carismatica ritrosia. Sfruttare pubblicamente i meccanismi del divismo, decostruendoli con pose spontanee di insofferente modernità, quasi picassiane. Instaurare un continuum d’immagine non manieristico tra sé e i propri personaggi, dove la mondanità della celebrità inficia il glamour con squarci rock di una congenita timidezza ribelle. Infine, attirare sia estimatori (gradualmente più numerosi) e detrattori del suo stile interpretativo.

Chissà se François Truffaut inquadrando Kristen Stewart avrebbe adattato per lei la stessa definizione riservata Catherine Deneuve:

“è un vaso che si può riempire con qualsiasi fiore”.

Perché tra le americane della generazione dei Millennials l’attrice californiana ha saputo più di tutte imporre un’identità anticonvenzionale e antihollywoodiana che infonde con spigliatezza non artefatta nei suoi personaggi. Più delle colleghe Jennifer Lawrence (che dopo l’Oscar glissa su prodotti più commerciali), più di Emma Stone, fin troppo centrata e disciplinata, e di un’altra stella bambina nonché mancata promessa Emma Watson, la Stewart si rivela alfiere di una sua idea di cinema, tra firme prestigiose e produzioni indipendenti. Ma soprattutto un’interprete che riversa la sua verità d’essere sui suoi personaggi, nei confini trascendentali di un alone insondabile e per questo vibrante, di un’intensità sussurrata e avvincente.

“Spencer”

Metamorfosi dell’immagine ieratica

Con performance poco poliedriche tra loro (un suggestivo paradosso per un’attrice che ha costruito sui red carpet di tutto il mondo una galleria di look casual-rock-punk o di alta moda trasformisti e genderfluid), quasi tutti i personaggi interpretati da Kristen Stewart nella sua lunga filmografia avvertono la loro scompostezza nel quotidiano, un’alterità inespressa in sottofondo, un’inquietudine al di là del Tempo circoscritto. Eleggono nel moto ondivago dell’esistenza la loro cifra d’essere, si inoltrano in piani di alterità: nel fantastico (Twilight), nell’incorporeo (la celebrità virtuale di Sils Maria), nel ricordo nostalgico (Café Society), nel metafisico (i fantasmi di Personal Shopper e di Spencer), nella fantascienza distopica (Crimes of the Future).

Ad incarnare questa galleria di giovani donne refrattarie alla felicità, autunnali e diafane incarnazioni di una femminilità fluttuante, figure dell’assenza che emanano una fragilità bellissima, c’è il lavoro di un’attrice che si presta più che mai sullo schermo anche con sua fisicità disfatta. Al suo volto lunare di avvenente freschezza e opacità onirica, fulgido e a tratti chiaroscurale, modulabile sui personaggi più disparati, si accordano una gestualità nervosa, movenze istintive ed errabonde, una postura frantumata.

Una recitazione minimalista, istintiva e sottile al contempo, avversa alle sovrastrutture e al mimetismo, a lungo avversata però da una parte di pubblico e critica che le additavano una tecnica lacunosa, una performance poco immersiva. Una creatività, quella di Kristen Stewart, che si esprime tra film, tv, moda e immagine pubblica (ma per scelta personale senza profili social), all’insegna di un carisma e di una sensibilità strettamente connesse al dispositivo cinematografico, nel mistero delle contraddizioni dell’arte filmica in sé e delle mutevoli e contorte aporie dei nuovi media, che tenteremo di seguito di tracciare, dopo un profilo biografico, in tre momenti epifanici del suo essere artista.

“Sils Maria”

Una stella che non sta a guardare

Anomalo e imprevedibile il destino riservato a Kristen Jaymes Stewart, nata il 9 aprile 1990 a Los Angeles da un produttore televisivo e da una supervisor di sceneggiature. Una delle innumerevoli predestinate della San Fernando Valley (che Hollywood può presto adombrare nella mortalità effimera del suo firmamento), con i natali e il codice genetico già iscritti nella forma dello spettacolo e dell’intrattenimento, un’infanzia di irregolare istruzione in una famiglia allargata e un’inquieta vocazione per la recitazione.

Interprete di precoce talento e di matura versatilità, tanto da indurre David Fincher sul set di Panic Room a definire questa dodicenne “la più straordinaria tra le attrici”, da imporsi alla critica con un piccolo film televisivo in un ruolo di rischiosa delicatezza in Speak – Le parole non dette, da ritagliarsi una parte piccola ma amena nell’acclamato Into the Wild di Sean Penn e in Disastro a Hollywood di Barry Levinson, dal cast di lusso.

Si schiude per Kristen Stewart un accenno luminoso di una parabola ascendente nel cinema indipendente o d’autore, arrestata però da una soverchiante popolarità da blockbuster con la tetralogia horror teen drama di Twilight. Un successo da beniamina generazionale che rilancia il suo nome nel sistema produttivo di Hollywood, non la disattiva emotivamente come tante baby star, ma la ingolfa in una narrazione prepotentemente mediatizzata (per la relazione con il partner di lavoro Robert Pattinson) e la avvinghia a una saga diretta da vari film-maker che mal sfruttano la sua recitazione particolarissima, non intravedendone l’intensità che può scorrere solo per strade non convenzionali.

“Panic Room”

L’attrice che visse tre volte

Sul fondo del chiacchiericcio moralistico di Hollywood e dintorni, che applaude, svilisce e intercambia al battito di una foto rubata, la Stewart subisce la gogna mediatica per un flirt clandestino con il regista sposato Rupert Sanders durante il fidanzamento con Pattinson. Emarginata dalle colossali produzioni, trova linfa vitale oltreoceano, in particolare, clamorosamente, in una Francia tendenzialmente fredda e prevenuta verso i nuovi talenti statunitensi e invece pronta ad ospitarla come una nuova Jean Seberg (che infatti interpreterà in un biopic sulla sventurata musa americana della Nouvelle Vague), vincendo anche il César come migliore attrice non protagonista in Sils Maria, prima americana nella storia.

Nella terza vita professionale la Stewart è accolta dall’immaginario di registi navigati come Olivier Assayas, che ne svela il mistero in Sils Maria e Personal Shopper, Woody Allen (Café Society) e Ang Lee (Billy Lynn) o da voci emergenti ed indie come Kelly Reichardt (Certain Women) e recentemente Rose Glass (Love Lies Bleeding).

Contesa dal cinema d’autore, lavora per Pablo Larraín (Spencer) e David Cronenberg (Crimes of the Future) e viene nominata Presidente di Giuria al Festival di Berlino 2023. Ingaggiata anche come ambassador per le maison Balenciaga e Chanel, diviene per quest’ultima, sotto l’egida di Karl Lagerfeld, più che un ‘volto’, l’espressione vivente dello stile più contemporaneo: camaleontico, ibrido, controcorrente, emancipato.

SEBERG KRISTEN STEWART

“Seberg”

Personal Shopper, 2016

Se è vero che, come scriveva David Foster Wallace, “ogni storia d’amore e una storia di fantasmi”, Personal Shopper (2016) di Olivier Assayas è un grande film d’amore nel salto nel vuoto della perdita e nel mistero oltre il tangibile e il razionale, nell’impercettibilità metafisica che diventa dialogo con l’oggetto più fantasmatico di tutti, il cinema stesso. Assayas, traghettatore fidato di Kristen Stewart nel cinema d’autore europeo fin da Sils Maria, le cuce il ruolo di una giovane medium e personal shopper di una viziata influencer, in cerca di un contatto con il gemello da poco defunto, in una trama che sconfina in un thriller che è poco più di un McGuffin.

Esteticamente Personal Shopper scinde la presenza della Stewart tra un’immagine dimessa, spettinata e androgina e un’aura aristocratica, inafferrabile, eterea, attraverso Maureen, la protagonista, che veste abiti mascolini e casual e che per lavoro attraversa l’epitome del lusso negli atelier di Chanel e Cartier. Così Assayas avvinghia la sua stratificata ghost story di tensione alla fenomenologia da celebrity dell’attrice, di cui studia, viviseziona ed cattura il divismo al di qua sia del moderno che del contemporaneo. Come una figura rediviva della Nouvelle Vague (così influente nella poetica del regista), Kristen Stewart catalizza lo sguardo appropriandosi dello spazio filmico nella sua mimica corporea così spigolosa, indifferente al mondo, straniante nella sua spontaneità, così senza rifrazioni da caricarsi di un incanto metafisico.

Il simulacro del sogno

Un’immagine divistica bifronte di cui Assayas filma il paradigma in una sequenza-madre del film, sulle note di Das Hobellied (1952) cantata da Marlene Dietrich, altra diva contesa tra due continenti. Qui Maureen, sola nell’appartamento della sua facoltosa cliente, come una bambina affascinata per emulazione dalla figura materna, si sveste dalle sue mise sportive per indossare vestiti e accessori glamour nella cabina armadio, sfidando una proibizione della sua assistita.

Una spoliazione che innesca il desiderio sessuale, le pulsioni di morte, lo scambio di identità: qui la macchina da presa si sposa con la recitazione della Stewart, prosciugata ma pregnante, di un naturalismo complice e partecipe al personaggio stesso. E nella binaria vestizione da ricalcitrante sensitiva (Maureen) e medium (come attrice che ruota attorno a vari strumenti espressivi e comunicativi, tra cinema, tv e moda) a donna dallo charme perturbante, Assayas cesella un teorema della seduzione divistica senza rivelarne l’irrazionale essenza. Scrive Edgar Morin in Il cinema o l’uomo immaginario sulla fotogenia e sul fascino dell’immagine filmica:

Balbettio di un pensiero che sta nascendo, candore dell’espressione povera e ricca come i balbettamenti della rivelazione mistica, la grande verità muove faticosamente i primi passi: la fotogenia è la qualità propria del cinematografo e la qualità propria del cinematografo è la fotogenia. […] È come se l’immagine empirica si combinasse con una visione onirica, analoga a quella che Rimbaud chiamava veggenza.

Kristen Stewart Monologue – Saturday Night Live, 2017

Uno degli show più longevi e di maggior successo nella storia della televisione americana e non solo, il Saturday Night Live della NBC ha battezzato innumerevoli comici della tv, stand up comedian, future star del cinema (tra i tanti John Belushi, Dan Aykroyd, Billy Murray, Billy Crystal, Robert Downey Jr., Jimmy Fallon, Tina Fey, Amy Poheler). Con i suoi inviti ai monologhi d’apertura ha accolto ospiti occasionali di prestigio, che vivevono lì il loro intrattenimento come un trampolino di lancio verso una popolarità ancora più nazional-popolare, talvolta incorniciando sketch che sono divenuti virali e memorabili (su tutti la parodia di Titanic di Leonardo DiCaprio e Jonah Hill e, di recente, gli interventi comici e musicali di Ryan Gosling che ha condotto un’intera puntata).

Kristen Stewart ne è stata ospite nel 2017 e nel 2023, offrendo la prima volta un monologo rilanciato dai media e chiacchierato, che ha riscritto il suo status di celebrity e ha esemplificato le nuove dinamiche tra Hollywood, politica e social media. Un intervento in cui l’attrice, promuovendo l’uscita di Personal Shopper, si aggancia all’immaginario collettivo di un’altra antidiva a cui spesso è stata affiancata (per la bellezza androgina e la risoluta difesa della privacy) e che le fu da mentore nei primi passi sul grande schermo: Jodie Foster, di cui Kristen interpretò la figlia nel thriller a camera chiusa Panic Room di David Fincher.

Controcorrente al cospetto del presente

Alla fine del monologo la Stewart pronuncia il suo coming out come fece Jodie Foster ai Golden Globe 2013, consegnando alle cronache la sua bisessualità, che non solo darà una cittadinanza più genderfluid alla sua identità indomita, audace e sofisticata tra i red carpet dei maggiori festival, front row delle sfilate e scatti di street style, ma la indurrà a scegliere ruoli e personaggi portavoce della sensibilità queer (come nella rom-com a tema LGBTQ+ Non ti presento i miei e nell’ultimo Love Lies Bleeding).

Ma una diva non facile e poco etichettabile percorre sempre le sue strade per vie impervie, scomode ed eclatanti: così la dichiarazione della propria sessualità si innesca da una denuncia sarcastica conto il Presidente Donald Trump. Nel 2012 infatti Trump twittò undici volte nel 2012 contro Kristen Stewart quando lui era solo un magnate e lei, agli occhi dell’opinione pubblica, la traditrice verso il fidanzato Robert Pattinson per un flirt con il regista Rupert Sanders, incitando l’attore a ripudiare la sua compagna fedifraga.

Donald, se non ti piacevo allora, non ti piacerò adesso. Perché sono ospite del SNL e perché sono gay.

Per l’attrice il monologo è molte cose insieme: l’affrancamento da una relazione sentimentale morbosamente pedinata e da tempo conclusa che l’ha sopraffatta; l’affondo contro la virtuale caccia alle streghe misogina e imperitura; l’esposizione, armata di ironia e di vetriolo, contro il più potente tra i potenti e leader repubblicano; un ingresso a gamba tesa nella Hollywood democratica; la riconquista di una nuova libertà di vivere il suo privato sotto lo sguardo del mondo; la presa di posizione civile di una personalità esposta per l’accettazione inclusiva della diversità. Ed è anche, per gli spettatori, un campionario della sua prossemica intermittente, esitante, insicura, dell’essere “qui ma non ora”, di quel fascino dell’imperfezione con cui la Stewart sa conferire la sua verità più intimistica ai personaggi.

Come ha scritto Christian Metz sul fenomeno del divismo:

Quando lo spettatore di cinema si identifica con l’attore piuttosto che con il ruolo lo fa con l’attore in quanto star, vedette, personaggio ancora, e favoloso, anch’esso di finzione. Nel migliore dei suoi ruoli.

“Love Lies Bleeding”

Once and Forever, 2015

Cortometraggio diretto dal Kaiser della moda e fashion designer di Chanel Karl Lagerfeld, Once and Forever rientra nel novero di quegli oggetti post-cinematografici che sono i fashion (short) film. E il compianto couturier si è distinto per la realizzazione di corti narrativi, non solo promotori dello stile iconico del marchio frutto di strategie di marketing, ma anche referenziali banchi di prova per il Lagerfeld fotografo.

Con Once and Forever lancia Kristen Stewart, una delle muse e ambassador nel mondo della maison parigina, nell’Olimpo di icone di bellezza che si sono cimentate nella vestizione, più che interpretazione, di Coco Chanel (da Inès de la Fressange a Stella Tennant, da Audrey Tautou e Kendall Jenner). Non solo, Once and Forever si configura come uno dei fashion film promossi dalle più blasonate maison dove la legittimazione dell’alta moda non può non prescindere dalla celebrazione in sé del cinema (da segnalare Chanel: In Homage to Mademoiselle di Sofia Coppola). E qui la scelta lungimirante del visionario Lagerfeld di scegliere Kristen Stewart, la più cinematografica tra le muse Chanel, per suggellare questo connubio fecondo tra arti e linguaggi.

Nella vertigine oltre la modernità

Il corto narra alcuni frammenti della vita estrosa di Coco Chanel, in particolare gli anni giovanili da chanteuse, aspirante modista e it girl dell’élite, scavando su una sovrapposizione tra quella figura rivoluzionaria e Kristen Stewart, che non è solo fisica, ma anche di temperamento e di rappacificazione interiore. Sfruttando immediati meccanismi del ‘meta-cinema’ Lagerfeld filma la Stewart e Geraldine Chaplin nei panni rispettivi di due attrici colte nei preparativi per un biopic sulla stilista, dagli esordi alla matura età.

Concentrando però inevitabilmente il suo obiettivo sulla Stewart, qui intercettata quasi alle soglie del cinema-verità, il fashion designer la scinde tra l’incarnazione di Coco in sé e una giovane interprete insofferente alle intrusioni dei mass media, avversa ai compromessi artistici, infine pronta ad abbracciare Geraldine Chaplin, a riconciliare la Coco acerba e ribelle degli inizi con la caratura anziana e onnipotente del Mito.

E Kristen Stewart di fronte alla cinepresa di Lagerfeld si triplica in cantante della Belle Époque (pare uscita da Les Enfants du Paradis) fotografata in bianco e nero d’epoca; poi attrice sul set, burrascosa, insicura, fragile, che nitide immagini mettono a nudo nelle idiosincrasie, nella ipnotica gestualità accentuata e scombinata. Infine una Coco dei ruggenti anni Venti, colta nel glamour patinato da haute couture, tra specchi e paraventi coromandel, camminate nervose e mani sulle labbra. Una, nessuna, centomila Kristen Stewart, ancora una volta avvolta, come in Sils Maria di Olivier Assayas, nella spirale incessante di un tempo sospeso e contemporaneo insieme: appunto, once and forever.

“Once and Forever”

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