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Interviews

“Donne, la più grande minoranza”. Dalla Berlinale, Antonella Sudasassi racconta ‘Memorias de un cuerpo que arde’

Premio del Pubblico nella sezione Panorama, il film della regista costaricana racconta la liberazione sessuale di tre donne anziane, esplorando l'universo femminile tra tabù epocali e anelito di libertà

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Una donna anziana allo specchio

“Tutto era un tabù. Il sesso era come un buco nero”. È questo il presupposto di Memorias de un cuerpo que arde della regista costaricana Antonella Sudasassi Furniss, premiato alla Berlinale 2024 (Panorama Audience Award – Miglior film). Ed è, davvero, un film ardito: un inno di donne, la cui voce anonima trova ascolto nella macchina da presa – e ascoltare è rivoluzione potente. Si coglie l’affaticata emancipazione, la vitale libertà della terza età. Sono in tre, ma le interpreta una sola attrice. Una e trina. La protagonista di Memorias de un cuerpo que arde è una, nessuna e centomila; è l’essere donne, anche quando la femminilità è minacciata, negata, smarrita.

Mai titolo fu più fedele. Tutto è, di fatto, sul filo della memoria, nel racconto delle tre protagoniste. Il loro volto non compare, ma s’incarna nello spazio scenico. Si confessano ciarliere, riattivano nel ricordo i propri corpi, ne fanno presenza fisica sul set: la donna è bambina, la donna è vergine, la donna è complice, la donna è sposa, la donna è violentata – la donna è, infine, libera, ora che, divorziata, è sola, e il suo corpo sa ancora provare piacere. Ardito, nel linguaggio, è il formato che incrocia documentario e finzione, passato e presente, ricordo e presenza. Non se ne vien fuori con la sensazione di un album: il film brucia, è ora. È il tempo delle donne, delle sfide e delle vulnerabilità che ancora scottano. Ne abbiamo parlato direttamente con la regista Antonella Sudasassi Furniss.

Il trailer di Memorias de un cuerpo que arde

La trama di Memorias de un cuerpo que arde

Cresciute in un’epoca repressiva in cui la sessualità era un argomento tabù, Ana, 68 anni, Patricia, 69 anni, e Mayela, 71 anni, hanno sviluppato la loro concezione di ciò che significa essere una donna sulla base di regole non dette e aspettative implicite. Ora osano parlarne apertamente. I ricordi, i segreti e i desideri delle tre donne si intrecciano in modo poetico: mentre le donne raccontano le loro storie fuori dallo schermo, riempiono il corpo di un’altra donna della loro generazione che incarna le loro vite. (Sinossi ufficiale)

L’intervista: Antonella Sudasassi Furniss racconta Memorias de un cuerpo que arde

LE PAROLE CHE NON TI HO DETTO

All’inizio di Memorias de un cuerpo que arde si legge una frase: “questo film è la conversazione che mai ho avuto con le mie nonne”. Ci spiegheresti, muovendo da questa dichiarazione, cosa ti ha spinto a girare il film?

Ho intrapreso il progetto proprio parlando con una delle mie nonne. Tuttavia, ero arrivato come al capolinea della memoria: le conversazioni non potevano essere approfondite oltre, lei mi continuava a ripetere le stesse cose. Mi ero fatta un’idea di come fosse stato per loro crescere in una società molto più repressiva di quella attuale, ma non ho mai potuto chiedere alle mie nonne se sapessero cosa fosse un orgasmo e come fossero arrivate a capire meglio loro stesse.

Entrambe le mie nonne hanno molti figli. La mia nonna paterna ne ha sette e la mia nonna materna undici. La sua ultima gravidanza è stata quando pensava di essere in menopausa e poco dopo si è accorta di essere incinta. Ho sempre avuto il dubbio se quella sessualità e quella maternità fossero state godute e desiderate. E naturalmente non avrò risposta. Al massimo è una cosa che avranno detto alle figlie. A partire da questo dubbio familiare, ho cominciato a parlare con altre donne.

Immaginiamo di dover spiegare questo film a uno spettatore italiano che, come molti al momento, non ha avuto ancora la possibilità di vederlo. Diremmo che è un film che ha per protagonista chi? Una donna, tre donne, tutte le donne?

Questo film si basa su di una conversazione con diverse donne anziane, che sono le vere protagoniste del film. Ci raccontano le loro storie e sono incarnate da un’attrice che rivisita i loro ricordi, la loro memoria, i loro segreti più intimi. Credo che questo sia il modo migliore per spiegarlo. Nel film ci sono tre donne che predominano, ma in totale parlano otto donne diverse.

NELLA BOLLA DEI RICORDI

Il processo di realizzazione di Memorias de un cuerpo que arde è quello tipico di un documentario: raccolta di interviste, ascolto di storie vere. Il film, tuttavia, è stato presentato alla Berlinale come opera drammatico, e di fatto contiene elementi di finzione. Come lo possiamo definire, allora? Un documentario o una fiction?

Sapevo che stavo combinando elementi di versi del formato filmico, ma per me l’importante era che al centro del film, in un modo o nell’altro, ci fossero le voci di queste donne.  Da qui deriva l’aspetto documentaristico del film. C’era però l’esigenza di non farle uscire allo scoperto, perché preferivano restare anonime. Mi hanno detto sin da subito di non voler essere riprese. Così, per me si è trattata di una vera e proprio sfida, che ho risolto con la scelta di utilizzare attrici.

Intrecciando tre storie di donne, il film non segue un ordine cronologico. In quindici minuti di Memorias de un cuerpo que arde, si è già parlato di vecchiaia, infanzia e menopausa. La protagonista, interpretata da Sol Carballo, dice: “il tempo è come una bolla. Il tempo non è lineare. Il fatto che ci siano dei ricordi significa che di tanto in tanto ci giriamo intorno“. Avevi pianificato sin dall’inizio di non seguire un ordine cronologico?

Sono state proprio le parole di queste donne ad ispirarmi per alcune scelte di regia. Molte idee sulla messa in scena provengono da ciò che dicevano. In particolare, mi ha orientato la frase sul tempo che citavi, insieme a un’altra che dice la donna in pensione, quando afferma che non ha molto da fare durante il giorno, eppure che il tempo non le bastava, perché sente di passare la maggior parte del tempo nei ricordi. Per me è stata la chiave di volta di tutte le riflessioni narrative. Ho capito che sono donne che convivono con i ricordi, che la memoria è parte del loro corpo, della loro vita quotidiana. Di qui, l’idea che tutti i fatti si svolgessero all’interno dello stesso spazio, quasi come se fosse la mente delle protagoniste, che passano il tempo a ricordare e, così, a sentire e rivivere.

Eppure, la memoria non è sempre uguale. Quando evochiamo un ricordo, può dipendere dallo stato d’animo in cui ci troviamo. Così, a volte mi raccontavano la stessa storia – ed era naturale che accadesse, perché ho parlato con loro per tre anni – e nel ripeterle una volta si trovavano in luogo, l’altra in un altro. Era bello vedere come il ricordo prendesse vita, prendesse una nuova forma, al momento di essere risvegliato. E da esso, scaturiva in modo naturale un’idea di messa in scena.

ERBA DI CASA MIA

Naturale, allora, porti una domanda su quello spazio: la casa. C’è una forte enfasi sugli oggetti che lo popolano. Soprattutto nella prima parte, la donna interagisce con la casa: vasi si rompono, tende si staccano, porte si bloccano. La casa è uno spazio sia reale che simbolico, ma soprattutto appare come un personaggio dialogante. In che modo l’hai concepita?

Lo spazio doveva essere un protagonista in più. C’è da dire che ho parlato tanto con queste donne durante la pandemia, quando vivevano, in effetti, un periodo di grande solitudine. Finiva, allora, che mi dicessero anche cose del tipo “si è rotta la lavatrice”, “non mi funziona quell’elettrodomestico”, eccetera. A partire da queste piccole realtà, mi sono figurata l’inizio del film, uno spazio che si converte in una clausura, ma che allo stesso tempo si presta all’immaginazione. È uno spazio che coincide visivamente con quello domestico al cui interno la donna è stata confinata per tanto tempo, allo stesso tempo carcere e porto dei desideri. È uno spazio che da cui parte l’immaginazione. In esso, le donne ricordano, vivono, rivivono le proprie memorie. Per elaborare questo concetto, la casa è divenuta, nel film, una protagonista che va trasformandosi.

Naturalmente, ci sono anche altri spazi. C’è la camera da letto dove la donna dorme, la fiera di paese con le giostre, l’ospedale. Gli spazi si trasformano a seconda di come le donne ricordano e, ribadisco, credo che la pandemia abbia avuto un forte effetto su queste conversazioni, perché le donne ripensavano a quando erano bambine e immaginavano di andare qua e là, anche se in realtà alcuni posti non esistevano – se non nella loro casa, nella loro mente, nel loro ricordo.

LA MEMORIA È UN INQUILINO

Se il tempo è fluido, dunque, anche lo spazio lo è. Nel film vediamo, appunto, comparire i ricordi come fantasmi nello stesso ambiente, mescolando presente e passato, infanzia e vecchiaia. Tutto ciò influenza i movimenti della macchina da presa, creando uno stile visuale peculiare, fatto di pochi stacchi e di movimenti continui, spesso circolari. Che stile visivo hai scelto per adattarti a un racconto che si muove così fluidamente nel ricordo all’interno di un unico spazio?

Bisogna partire dal fatto che prima di scrivere la sceneggiatura, e persino prima di pensare alle forme della messa in scena, mi sono sforzata di ascoltare con attenzione tutte le testimonianze delle donne e di trascrivere i loro ricordi. L’aspetto visivo del film corrisponde alla stessa fluidità dei loro discorsi: mentre mi raccontavano ciò che le era successo ieri, in maniera super-casuale potevano passare a un qualsivoglia diverso momento della loro esperienza di quando erano bambine. Lo facevano con una facilità estrema, quel flusso di ricordi che risulta tipico della terza età. Mio compito era trasferire questa agilità della memoria in un movimento fisico della macchina da presa. Per me era fondamentale che vi fosse, in tal senso, una coincidenza totale, ossia, che ricordi e memorie coabitassero con il corpo in uno stesso spazio, e che lo spazio fosse come un’estensione del corpo.

IL SILENZIO CON LE INNOCENTI

Parlavi di solitudine. C’è un collegamento, mi sembra, tra il tabù del sesso e la solitudine di queste donne. Il sesso dovrebbe essere una forma di connessione. Il silenzio sul sesso, per cui le donne erano costrette a scoprire tutto da sole, era quasi una forma di abbandono, così come il venir meno del sesso in una fase della vita è come interrompere un dialogo.

Senza dubbio è così. Tutti gli esseri umani, in quanto tali, subiscono delle metamorfosi. Cambiare è l’unica costante dell’essere umano. Capirsi come donne, in quanto donne, vuol dire anche saper affrontare questi cambiamenti fisici nel corso della vita. Se nessuno ci dice niente e ci aiuta a capire queste trasformazioni, si può esperire uno stato di solitudine assoluta. È questo che mi raccontano le protagoniste di Memorias de un cuerpo que arde. La loro crescita è molto poco accompagnata. Ora che la rivivono attraverso il ricordo, lo fanno con occhi diversi, con nostalgia, con un’altra comprensione di quello che succedeva.

È quello che anche a me è toccato vivere, ma che non sento come un limite, bensì come ciò che mi determina, che fa di me ciò che sono, punto. Nel caso di queste donne, per il fatto di essere anziane, c’è anche un sentimento della morte. Pensi più spesso alla fine del tuo tempo, e questo succede mentre passi più tempo da sola e non vedi molta gente. La tua vita quotidiana si trasforma in uno spazio di solitudine.

MA CHE COLPA ABBIAMO NOI?

Altra parola chiave del film, davvero preziosa per capire la condizione femminile in certi contesti geo-storici, è colpa. Una delle donne ci sviluppa un intero discorso. Spiega come le altre donne di famiglia le chiedessero cosa avesse fatto per risvegliare il desiderio in uno zio o in un nonno, racconta le esperienze con le suore, gli atti di dolore recitati senza nemmeno sapere bene quale fosse la colpa – se non quella, presumibilmente, di avere un corpo in trasformazione. Sono parti di Memorias de un cuerpo que arde che, più che confessioni private, sembrano autentici ritratti di un’epoca, di un’intera società. Hai avuto la sensazione di aver ripercorso a tappe una microstoria della società patriarcale?

Ora che mi parli di senso di colpa, non posso negare che la cosa mi commuove molto. Perché in fondo, in un modo o nell’altro, è quello che ancora fanno sentier a noi donne. È un retaggio della morale giudaico-cristiana, ma è un discorso di grande attualità e complessità. In Francia hanno appena approvato una legge sull’aborto a livello costituzionale, mentre al contrario negli Stati Uniti hanno appena eliminato il diritto all’aborto ( il 24 giugno 2022, la Corte suprema degli Stati Uniti ha annullato la storica sentenza “Roe v. Wade” del 1973 che garantiva l’accesso costituzionale all’interruzione volontaria di gravidanza in tutti i 50 Stati dell’Unione, n.d.R.). C’è sempre un’idea di colpa alla base di alcune idee del legislatore e di ciò che ancora oggi viviamo.

Memorias de un cuerpo que arde

Memorias de un cuerpo que arde, improbabile lezione di anatomia

Quando ho montato la scena in cui la donna parla della colpa, ricordo di aver percepito una lucidità assoluta nelle sue parole: ci hanno insegnato la colpa, a sentirci colpevoli di molte cose, ma mai a liberarci da essa. A guarirla. A lasciarla andare. Ricordo che un paio di anni fa ne cantavano le ragazze del collettivo femminista cileno Las Tesis, in una canzone diventata virale. Si tratta proprio di ciò che sentiva questa signora quarant’anni fa. Non siamo ancora riusciti a eliminare la colpa dal corpo. La viviamo ancora, l’attraversiamo. Se allora mi chiedi se Memorias de un cuerpo que arde sia il ritratto di una società patriarcale, non so come risponderti, perché queste storie riflettono un contesto specifico. Ma che la domanda sia attuale, non c’è dubbio: abbiamo superato questa mentalità?

ESSERE O NON ESSERE (DONNA)

A proposito della lucidità delle donne che hai intervistato, un’altra frase significativa che sarebbe da notarsi è questa: “essere donna non è semplicemente prepararsi, truccarsi e tutto il resto. Certo che no. Per me è essere forte, dolce e appassionata in ogni cosa”. Ti sentiresti di sottoscrivere questa affermazione?

È un tema molto complesso, ed è chiaramente ciò attorno a cui mi interrogo negli ultimi due film che ho realizzato: cosa vuol dire essere donna nella società in cui vivo? (Il film precedente si chiama El despertar de las hormigas, 2019; n.d.R.) Non riesco a trovare una risposta. Non mi sono mai sentita particolarmente femminile, rispetto a ciò che possa connotare una donna.

Memorias de un cuerpo que arde

Memorias de un cuerpo de arde, Liliana Biamonte in una scena del film come madre

Ma anche se non so rispondere, mi piace tirare in ballo un’altra affermazione di una delle donne del film, che trovo davvero bella, quando dice: “quanto mi è costato disimparare? Ho dovuto disimparare tutto ciò che avevo appreso sul fatto di essere donna, e imparare che non sono un uomo o una donna, ma un essere umano”. Credo che sia così anche per me, e l’ho capito parlando con adulte, con donne anziane che, avendo vissuto una vita intera, possiedono un carattere riflessivo di una lucidità brutale. Ti obbligano a ripensarti come persona. Riuscire a fare questo con un film è bellissimo. Voglio dire, ritrovarmi in questi racconti, in queste storie, in queste riflessioni che rimettevano in gioco anche me. Molta dell’incertezza e della frustrazione di queste donne l’ho vissuta anche io trenta o quarant’anni dopo. Ho sentito una forte identificazione con loro.

CINEMA FEMMINISTA, FORSE

E in ragione di questa riflessione sull’essere donna ieri e oggi, Memorias de un cuerpo que arde, per te, può essere considerato un esempio di cinema femminista, se non di empowerment?

Mi gratifica che tu me lo chieda: parlare di cosa voglia dire essere una donna significa, in automatico, fare cinema femminista. Ma c’è una cosa che mi sorprende. Per queste donne di un’altra epoca, considerarsi femministe può essere qualcosa di negativo. Mi dicevano apertamente di non esserlo e che tutti dovrebbero essere uguali. Eppure, il bello è che non c’è discorso più femminista di quello che fanno nel film!

E GLI UOMINI?

La frustrazione che spesso accompagna la condizione femminile, e segnatamente l’aspetto sessuale, si vede anche in una scena, la classica disillusione della prima notte di nozze, da cui la protagonista trae partito per successivi pensieri ricorrenti sull’orgasmo e sulla masturbazione. Sulla difficoltà del marito nel darle piacere, c’è una cosa interessante che dice la sposa: “Probabilmente faceva e mi faceva fare le cose che suo padre gli aveva detto di fare e farmi fare”. Ci metto anche il fatto che in un altro stralcio del film gli uomini di quell’epoca sono descritti come alquanto “timidi”, e ti chiedo: in un film sulle donne quale Memorias de un cuerpo que arde, come ti sentiresti di descrivere l’immagine che vien fuori della controparte maschile?

È la controparte maschile di quegli anni. Soffrivano anche gli uomini. Stessa incertezza, stessa frustrazione di non sapere. Quando non si parla di sessualità in generale, nessuno sa nulla ed è un problema per tutti. Naturalmente, avrei bisogno di ascoltare anche la loro versione, ma è indiscutibile che, in un modo o nell’altro, siamo sempre il risultato del contesto in cui cresciamo. Pertanto, se quel contesto è limitante, è inevitabile sentirsi frustrati e insoddisfatti. Anche a loro venivano dette delle cose in cui credere, nello stesso contesto di non conoscenza e disinformazione.

SESSO E RIVOLUZIONE

La volontà di sapere, curiosamente, è il primo volume de La storia della sessualità di Michel Foucault, pubblicato postumo nel 1976. Dal film è naturale concludere che la conquista della libertà passa per la rottura dei tabù, per la conquista della conoscenza, per l’attraversamento dell’esperienza. È bello sentir dire una delle donne: “questa è la migliore epoca della mia vita, perché ho libertà totale”. Sei convinta dell’esistenza di un legame forte tra emancipazione, sessualità e parità dei diritti, come si era teorizzato tra anni ’60 e ’70? Oltre a Foucault, penso a filosofi come Herbert Marcuse (Eros e civiltà, 1955) e Betty Friedan (The Feminine Mystique, 1963)?

Assolutamente sì. Siamo esseri sessuali; è un carattere intrinseco alla nostra natura, ma allo stesso tempo è quello più represso e meno socialmente accettato. Vivere una sessualità libera è un’utopia, nonostante la liberazione sessuale degli scorsi decenni. I dibattiti, le discussioni e le frustrazioni di oggi sono ancora permeati dalla morale giudaico-cristiana che proibisce, che distingue il bene dal male. La sessualità non si può separare dai diritti di una persona. Adesso siamo in mezzo a una rivoluzione che punta a un’apertura definitiva sui gusti sessuali, sullo smettere di nascondersi. Cionondimeno, è ancora un processo, un dialogo sulla ricerca della libertà.

EFFETTO CINEMA

Potere liberatorio ce l’ha anche il cinema. In tal senso, mi ha suggestionato la scena delle giovani coppie che si approcciano mentre vedono un vecchio film costaricano, Elvira, del 1955. Spesso il cinema classico si autocensurava, quindi non saprei fino a che punto potesse essere una scuola di vita per i giovani, donne e uomini. Ma il cinema inteso come ritrovarsi a condividere un’esperienza nello spazio fisico della sala in penombra, mi è sembrato racchiudersi in un’immagine potente. Che effetto ti fa pensare che oggi i tempi siano cambiati e molti spettatori, magari, vedranno Memorias de un cuerpo que arde in streaming, da un piccolo schermo, on demand?

C’è una ragione precisa per cui ho scelto Elvira: è il primo film che mostra un bacio sul grande schermo nella nostra cinematografia nazionale, ed è stato un vero e proprio evento. Un bacio in primo piano, allucinante all’epoca. Così come lo era il contenuto del film, di una donna che sapeva essere brutale (la protagonista è una ricca possidente che rifiuta l’amore del servitore Alberto e lo allontana dalla casa per pregiudizi sociali, ma ci sarà un lieto fine, n.d.R.). Il cinema è un potente mezzo di comunicazione. Negli Stati Uniti, negli anni ’50, si compresa la capacità del cinema di creare delle posizioni, di corroborare un sistema ideologico. Allo stesso tempo, quando t’imbatti in un film, ti apri ad altri mondi. Il cinema ha dunque questa dicotomia, questa doppia capacità, di mostrarti ciò che devi essere, o ciò che puoi essere.

Hai anche un tu in ricordo intenso come quello delle donne al cinema nel tuo film?

La prima volta che ricordo di aver visto un film, era sull’Iran, del quale non sapevo assolutamente nulla perché non avevo mai viaggiato nella mima vita. D’improvviso mi sono ritrovato in questo universo, in un altro luogo del pianeta. Ho subito inteso come il cinema possa insegnarti a sognare, ad amare, ad imparare, a cercare. Incentiva la curiosità. Ora che è possibile vedere un film in diversi formati grazie alla tecnologia, nello schermo di un cellulare, del computer, della televisione, è un linguaggio diverso. Ma il contenuto, quello resta: puoi ancora teletrasportarti in altri luoghi, spazi, universi che non potresti altrimenti conoscere.

DONNE DI OGGI

Teletrasportiamoci ai giorni nostri. Dice la protagonista del tuo film: “essere donna è molto bello, ma c’è una parte brutta, quella di essere vulnerabili”. Quale pensi che sia la maggiore vulnerabilità delle donne oggi?

Per me, questa frase descrive perfettamente cosa significhi, in un certo senso, essere una donna e percepirsi come tale nella società di oggi. Ripetersi ogni giorno: “ringrazio Dio di avermi fatto donna e non uomo” è come riaffermare che sono proprio dove voglio essere. Allo stesso tempo, vuol dire capire e sapere che essere una donna significa accettarne le sfide e le difficoltà. È come essere una persona dissidente, essere non binaria, essere LGBT. È la sfida di essere libere, di essere diverse. E, purtroppo, essere donna significa essere nella più grande minoranza del mondo.

Continuerai a esplorare l’universo femminile nel prossimo film?

Nel progetto a cui lavoro attualmente, mi occupo della scrittura e della produzione, ma non sono la regista. Il film sarà diretto dal mio partner, Manrique Cortes, e si intitola Mostri. È un film estremamente coraggioso, che racconta la storia di un giovane adulto che, dopo aver incontrato la figlia che non vede da dieci anni, deve riconnettersi con la paternità assente. Sia la propria, che esercita, sia quella del padre che non c’era. Si parla quindi di paternità, di mascolinità, dell’incapacità di considerarsi vulnerabili come uomini.

Direi, un argomento complementare a tutto quanto ci siamo raccontati in questa conversazione.

Esattamente. È l’altro lato della storia, l’altro punto di vista.

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Memorias de un cuerpo que arde

  • Anno: 2023
  • Durata: 90'
  • Genere: Drammatico
  • Nazionalita: Costarica, Spagna
  • Regia: Antonella Sudasassi Furniss