Il cinema di Margarethe von Trotta ha sempre avuto una forte prospettiva femminile e, al centro dei suoi film, donne carismatiche, spesso protagoniste della Storia. La sua ultima opera, Ingeborg Bachmann – Viaggio nel deserto, racconta della grande poetessa e intellettuale austriaca in un doloroso periodo della sua vita, diviso tra letteratura, amori che finiscono e viaggi. Il film è stato presentato al Trieste Film Festival all’interno dell’originale rassegna Wild Roses, dedicata a un gruppo di registe tedesche che offrono uno straordinario panorama del cinema in Germania degli ultimi anni. Cineaste rigorose, anticonformiste, con una forte identità, che dimostrano, sempre, come non ci siano rose senza spine.
Margarethe von Trotta, soggetto principale dei suoi film sono ritratti di donne del mondo tedesco o mitteleuropeo.
Anni fa, una produzione mi propose di realizzare un film su Evita Perón. Ma come posso fare un film su Evita Perón, che è di un mondo totalmente diverso da quello che è il mio background culturale? Non mi sento capace di fare qualcosa così al di fuori di me. Per questo, mi sono sempre soffermata sulla storia della Germania.
Come le è venuta l’idea di realizzare Ingeborg Bachmann – Viaggio nel deserto?
L’idea non è stata mia, ma di uno dei produttori. Un produttore era austriaco, l’altra svizzera (Ingeborg Bachman austriaca, Max Frisch svizzero). Sono loro che mi hanno proposto di realizzare il film. Io, personalmente, non l’avrei mai fatto, perché ammiro troppo Ingeborg Bachmann.

Ingeborg Bachmann – Viaggio nel deserto
È affascinante la descrizione del periodo storico all’interno del film. Ingeborg Bachmann viene mostrata come una donna molto moderna, forte, pur con le sue fragilità.
I produttori mi hanno lasciato totale libertà, anche di scegliere quale fase della vita di Ingeborg Bachmann mi sembrasse più interessante raccontare. Ho optato per gli anni in cui è stata con Max Frisch. Avrei anche potuto soffermarmi su un’altra fase della sua vita. Per esempio, lei aveva avuto una storia con Paul Celan, il suo vero amore, forse, un uomo molto sensibile e problematico, che l’ha rimproverata di un sacco di cose, del fatto che non lo aiutava abbastanza, per esempio, e lei, alla fine, lo ha lasciato. Proprio in quel momento, incontra Max Frisch. Lui era molto più conosciuto, più grande di lei di quattordici anni, anche più benestante. Ingeborg Bachmann, probabilmente, sperava di trovare in lui l’uomo stabile, l’uomo protettore che, però, allo stesso tempo, la lasciasse libera come donna. È stato veramente stimolante mostrare questa relazione, perché spesso noi donne crediamo di essere emancipate, forse lo siamo anche, però è interessante vedere come, in amore, probabilmente non siamo tanto indipendenti, tanto emancipate quanto speriamo, quanto pure Ingeborg Bachmann pensava. Era una donna molto moderna, avanti rispetto ai suoi tempi, però, quando il suo uomo la lascia, andandosene con un’altra, ha avuto un crollo, anche un tentativo di suicidio. Quindi, c’è questa discrepanza, tra libertà e emancipazione da un lato e una totale disperazione per amore.
Considera Ingeborg Bachmann – Viaggio nel deserto un film femminista?
Non lo è in maniera ideologica. È un film che affronta il tema della violenza psicologica sulle donne, tra l’altro in un ambiente colto, residuo di una profonda culturale patriarcale. Io ho vissuto a lungo a Parigi e sono sempre stata stupita di tutti questi uomini intellettuali sicuri di avere un potere sulle donne, anche molto colte e, ancor di più, che molte donne li lasciassero fare, quasi a voler in tal modo dimostrare la loro generosità d’animo, dicendo che, comunque, gli uomini sono così e si possono sopportare se non diventano violenti. Penso che, spesso, non si rendano conto che la violenza psicologica possa essere più forte, e con effetti più duraturi, di quella fisica.

Ingeborg Bachmann – Viaggio nel deserto
La bellezza è al centro di Ingeborg Bachmann – Viaggio nel deserto, dalla poesia, che ne è parte della trama, alla squisita fattura artistica.
Ci tenevo a restituire l’eleganza di quel mondo, sì, ma la poesia non è soltanto bellezza. Le poesie di Ingeborg Bachmann sono anche dure, nella loro profondità, e sofferte. Il film parla del suo dolore davanti alla vita e pure della bellezza. C’è la bellezza della fotografia del film, c’è la grazia della sua immagine, dell’attrice che la personifica, sì, ma puoi essere bella e, pure, soffrire come un cane. Nel mondo, non è la bellezza che ti salva. Sicuramente non ha aiutato Ingeborg Bachmann a evitarle la sofferenza, non solo a causa degli uomini. Direi che è stata un’esistenza dolorosa, nella sua totalità.
Nel film si vede una Ingeborg Bachmann innamorata dell’Italia. Immagino sia anche un riflesso del suo stesso amore per il nostro Paese e il suo cinema.
Ingeborg Bachmann dichiarava sempre che il suo Paese preferito era l’Italia, ne amava anche la lingua. Da bambina aveva vissuto a Klagenfurt, città vicina alla frontiera con la Slovenia e l’Italia, dove andava spesso con il padre o la famiglia. Ha imparato a parlare italiano molto presto e l’attrazione per l’Italia, e la cultura italiana, è stata una costante della sua vita. Nel film mostro la sua amicizia con il musicista Hans Werner Henze. Lui abitò prima a Ischia e poi a Napoli. Lei è andata spesso a trovarlo, hanno lavorato insieme e io volevo ambientare una parte del film lì, ma, purtroppo, la produzione non aveva i soldi per andare anche a Napoli. Dunque ho collocato Henze a Roma, dove Ingeborg Bachmann aveva vissuto già nei primi anni Cinquanta. Poi ha viaggiato molto. È tornata in Germania perché le avevano proposto un lavoro per la radio, che accettò per guadagnare qualcosa, perché con le poesie non aveva venduto granché. Tuttavia, aveva sempre questa nostalgia per l’Italia e, dopo aver vissuto per un certo tempo con Max Frisch, è tornata a Roma. Quando si sono separati, lei è dovuta andare via, perché il paradosso è che, lui che non amava l’Italia, ha imparato ad amarla con lei e, poi, è rimasto a Roma con la sua nuova donna. Ingeborg Bachmann sentiva di non poter stare nella stessa città dove viveva lui. Ha aspettato che Max Frisch ritornasse in Svizzera, poi è andata di nuovo a vivere a Roma. È morta, anche, lì, in maniera terribile.
Per quanto mi riguarda, la prima città che ho visitato fuori dalla Germania, è stata Roma, negli anni Cinquanta. E me ne sono totalmente innamorata. Quando, anni dopo, il produttore Rizzoli mi ha proposto di fare un film in Italia, subito ho preso questa occasione e poi sono rimasta a Roma per sette anni. Nel momento in cui è arrivato al potere Silvio Berlusconi, avevo un amico italiano che non voleva più stare nel suo Paese. Io possedevo una casa a Parigi e siamo andati a vivere lì, ma mi ha fatto pena lasciare Roma. Per quanto riguarda la mia storia con il cinema italiano, lo conoscevo già prima di venire in Italia. Amavo tutti quei film girati dopo la secondo guerra mondiale. Mi sembravano gli unici film veramente forti di quel periodo. Visconti, Fellini, Pasolini… era il cinema più bello del mondo. Anche se il regista più importante, per me, era Ingmar Bergman. Come ha detto anche Martin Scorsese, il cinema italiano del secondo dopoguerra è stato il più rilevante del mondo. E non lo dico per fare complimenti a un pubblico italiano, lo credo veramente.

Ingeborg Bachmann – Viaggio nel deserto
Quando lei ha iniziato, negli anni ’70, fare la regista non era così comune.
Allora non si parlava di questa differenza di genere. Oggi, le registe sono ancora poche, ma se ne parla un po’ di più. Io stessa sono qui, al Trieste Film Festival, perché invitata a una rassegna, Wild Roses, tutta dedicata a registe donne.
Come l’essere donna ha influito nel suo fare cinema?
All’inizio ho, più o meno, fatto sempre una battaglia individuale. Non era facile trovare i soldi, anche se non ho mai fatto film carissimi. Come ha detto una regista tedesca morta da poco, Helma Sanders-Brahms, rimaniamo sempre come delle casalinghe che devono cucinare una torta, ma con pochi ingredienti. Quindi, per lungo tempo, abbiamo realizzato i nostri film in questa maniera: costavano sempre molto meno di quelli dei nostri colleghi uomini. Anche per gli argomenti di cui parlavamo. Né volevamo fare film epici come Napoleon, con le grandi battaglie. Questo non ci ha mai interessato.

Margarethe von Trotta con la direttrice artistica del Trieste Film Festival, Nicoletta Romeo, e la curatrice del focus Wild Roses, Mariëtte Rissenbeek
Il cinema tedesco ha vissuto una gloriosa stagione tra gli anni ‘70 e l’inizio dei ’90.
Non c’è stata un’industria del cinema tedesco, perché erano film molto d’autore. In quegli anni, in Germania siamo stati una banda, un gruppo che era molto legato. Per esempio, quando ho fatto il mio primo film, era in 16 mm. Poi l’ho gonfiato a 35 mm per presentarlo alla Berlinale, ma si vede la differenza tra un film in 16 mm o in 35 mm, anche se lo riversi. Dopo che Wim Wenders lo vide, venne da me e mi disse: «Il tuo prossimo film lo fai in 35 mm e te lo pago io». Abbiamo sempre cercato di essere solidali. Adesso forse non è più così perché, prima del crollo del muro, stavamo tutti a Monaco, dopo, in tanti sono andati a vivere a Berlino, altri in America, ci siamo un po’ persi. Ma all’inizio eravamo molto uniti, anche perché abbiamo dovuto lottare per avere i mezzi. Quando sono venuta in Italia, mi sono stupita che subito mi fecero un contratto per scrivere la sceneggiatura. Da noi non avevi mai soldi per la sceneggiatura: prima dovevi presentarla (di solito ce la scrivevamo da soli) e, se il film si faceva, te la pagavano. In Italia avete avuto un cinema forte, il che ha voluto dire anche che lo sceneggiatore era un mestiere a sé. Qualche volta il regista era anche sceneggiatore, ma non sempre, veniva scelto o si sceglieva le storie da raccontare. Come in America, dove sono due mestieri diversi.
A proposito di cinema tedesco e Wim Wenders, il suo ultimo film sta avendo molto successo. Premiato al Festival di Cannes, è nella cinquina per gli Oscar.
Wim Wenders non ha mai smesso di fare film, di fiction o documentari. Con Perfect Days ha legato la cultura e il pensiero giapponese a quello tedesco. Che non sono così lontani l’uno dall’altro. È un bellissimo film. Anche coraggioso, considerando che è incentrato su uno che fa pulizie nelle toilette. Io non avrei avuto tanta fantasia. Poi ha trovato un attore protagonista così bravo! Non a caso ha preso il premio a Cannes. Wim Wenders già da tanto tempo era legato alla cultura giapponese. Ha sempre visto Yasujirō Ozu come uno dei suoi maestri.

Wim Wenders
La generazione di registi tedeschi a cui appartiene ha segnato un’epoca nel cinema europeo e non solo. Qual è lo stato dell’arte oggi?
Il cinema tedesco oggi non si vede più così tanto. In Europa si è sempre andati a cicli. Dopo l’affermazione della Nouvelle Vague, ci sono state varie ondate: del cinema polacco o di quello cecoslovacco, poi di quello che veniva dal Brasile, con Glauber Rocha. Erano sempre momenti in cui c’era un gruppo che diventava importante nella cinematografia del mondo, dopo lo si dimenticava un po’. C’è stato un periodo, negli anni ‘70, in cui il cinema tedesco ha avuto molta attenzione. Oggi non è che da noi non si facciano più film, ma si è concentrati verso altri Paesi. Abbiamo avuto la nostra chance ed è stato bello.
In due suoi film recenti, quest’ultimo dedicato a Ingeborg Bachmann e quello del 2012 su Hannah Arendt, è descritta anche la grande competizione tra scrittori da una parte e filosofi dall’altra.
Sì, c’è anche un parallelo molto divertente, perché Ingeborg Bachmann ha scritto la sua tesi di dottorato su Martin Heidegger, distruggendolo. E sappiamo quanto stretto sia stato il rapporto tra questo filosofo e Hannah Arendt. Le due si sono anche incontrate una volta a New York. Ingeborg Bachmann è andata a far visita ad Hannah Arendt e quest’ultima, per un certo momento, ha sperato che la Bachmann traducesse le sue opere in inglese, ma non è accaduto. Sono state le poesie di Giuseppe Ungaretti l’unica traduzione fatta da Ingeborg Bachmann, come si vede anche nel film.

Hannah Arendt
Nel film si avverte una specie di necessità, in Ingeborg Bachmann, di trovare il deserto, il vuoto, per poter rinascere.
Sì. In una scena, Max Frisch le legge uno dei suoi romanzi e parla del deserto. Lei dice: non lo conosco, non ci sono mai stata. E lui le risponde: ti porterò io. Così, quando, dopo essere stata abbandonata da lui, incontra quel giovane, che le dice di stare per fare un viaggio nel deserto e le propone di andare insieme, Ingeborg Bachmann accetta. Per me, come prima cosa, questa decisione era un modo per avere una rivincita su Max Frisch. All’inizio del viaggio era ancora malata e debole. Piano piano migliora e, alla fine, dice che è stato la sua salvezza. È anche per questo che ho scelto, per il film, il titolo Viaggio nel deserto, perché sono due deserti. Il primo è il vero deserto, quello fisico, geografico. L’altro è il rapporto con Max Frisch, che comincia nella gioia, nell’attesa della felicità, e poi va giù giù. È anche un viaggio nel deserto dei sentimenti, il secondo, quello metaforico.
Il deserto è sempre presente, in effetti, in un montaggio che lo punteggia sin dall’inizio del film, raccontando del passato di Ingeborg Bachmann con Max Frisch.
Esattamente. C’era un epistolario fra loro due, che è uscito solo adesso. Io, anche per le vite di Rosa Luxemburg, Hannah Arendt, Hildegard von Bingen, grandi donne su cui ho fatto dei film, ho usato molto la loro corrispondenza, perché si può comprendere tanto di una persona leggendo lettere personali a diversi destinatari. È come avere una visione caleidoscopica di un personaggio. Ho provato ad avere il permesso di leggere la corrispondenza fra Ingeborg Bachmann e Max Frisch prima che uscisse, ma non mi hanno dato i diritti. Anche il fratello della Bachmann, che è ancora in vita, voleva aiutarmi, ma l’editore Suhrkamp Verlag è stato irremovibile. Non sapevo cosa fare. Poi ho letto il libro di questo giovane giornalista che è andato con lei nel deserto. Lui ha descritto bene questo viaggio e mi è venuta l’idea di connettere, nel montaggio, questi due viaggi diversi, nella vita con Max Frisch e nel deserto. Inoltre, mi piaceva l’idea di andare a girare nel deserto. Siamo stati in Giordania, a Wadi Rum. Lawrence d’Arabia è stato fatto proprio lì, per questo lo cito, insieme a Omar Sharif, che era nel film.

Ingeborg Bachmann – Viaggio nel deserto
Lei ha sempre lavorato in grande complicità con le sue protagoniste. Penso al percorso che ha fatto con Barbara Sukowa. Volevo chiederle come ha lavorato insieme a Vicky Krieps.
Probabilmente è l’inizio di una bella collaborazione. Non ho ancora la storia, ma vogliamo fare un film con Barbara Sukowa e Vicky Krieps insieme: una sarà la madre e l’altra la figlia. Sono veramente le mie attrici preferite. Quando ha saputo che volevo fare un film su Ingeborg Bachmann, Vicky Krieps mi ha scritto, dicendomi che voleva essere lei a interpretarla. Non sapendo, però, che io stessa l’avevo già in testa, perché, mentre scrivevo, sapevo che doveva essere lei. L’avevo vista in Il filo nascosto, che l’ha rivelata al mondo del cinema. Mi è talmente piaciuta lì… perché poteva diventare molto severa e poi, di colpo, aveva questo sorriso bellissimo, come il sole che si alza. E avevo anche visto un’intervista, che mi aveva impressionato, con un giornalista. Lei parlava molto severamente degli uomini. E percepivo che il giornalista si ritirava sempre di più, proprio fisicamente, quasi avesse paura di lei. E poi, di colpo, lei sorride… Mi sono convinta di aver bisogno proprio di questo sorriso.
Che atmosfera si respira qui al Trieste Film Festival? Siamo in una città molto mitteleuropea.
Posso dire poco del Trieste Film Festival, sto imparando a scoprirlo, ma sento sempre la medesima percezione, da quando ho incontrato l’Italia: la grande gentilezza della gente, l’entusiasmo. Questo, dall’inizio, mi ha sempre colpito e mi ha sempre convinto che sia un Paese bellissimo in cui vivere. Al Trieste Film Festival non ero ancora mai stata, anche se esiste già da tanto tempo. A me sembra magnifico. E poi questo teatro in cui fanno le proiezioni… tutto perfetto! A Trieste ho girato un film per la Rai, tanti anni fa, nel 2010, Mai per amore. Abbiamo fatto un quadro della violenza contro le donne. Era in quattro episodi e io ne diressi uno, La fuga di Teresa. Vengo sempre molto volentieri qui. Quando mi hanno proposto di venire a Trieste per il film, ho detto subito sì. Prima di tutto per rincontrare Trieste.
A proposito di violenza sulle donne, il mondo del cinema non ne è stato risparmiato.
Prima di essere regista, sono stata attrice. Ho avuto piccoli ruoli all’inizio. E allora mi hanno detto: se tu vieni a letto con me, avrai la parte. Quindi potevi scegliere: se l’uomo ti piaceva, allora sì, forse si poteva fare. Ma non l’ho mai fatto per avere la parte. Ovviamente, prendere un ruolo non deve dipendere dall’accettare di andare a letto con qualcuno. O sei brava o non sei brava. E prendi la parte perché sei brava, non per altro. Questo è cambiato adesso, penso, forse non totalmente. In America è stato diverso: quelle povere donne se non dicevano sì a quell’uomo terribile, lui aveva il potere di non farle più lavorare. Dunque era veramente un problema per il loro futuro.
Ingeborg Bachmann – Viaggio nel deserto ha già una data di distribuzione in Italia?
Purtroppo no. C’è un distributore che l’ha preso subito dopo il Festival di Berlino, ma non lo conosco neanche. Il film è passato nei Festival di Bari e Palermo, adesso qui a Trieste, ma non si sa quando esce. Spero presto.

La fuga di Teresa