Disponibile su Disney Plus Cristóbal Balenciaga, incursione in sei episodi nell’elegante e austero mondo creativo del fondatore dell’omonima e celebre maison, tuttora attraente marchio di lusso (seppure evoluto in declinazioni non sempre allineate con il manifesto del suo padre creatore). Una miniserie spagnola dall’impianto di ordinario ma godibile biopic su un trentennio di vita e di lavoro di Balenciaga, dagli anni Trenta ai Sessanta del Novecento, dall’apertura dell’atelier a Parigi (dopo la formazione e i primi successi nella natia Spagna) alla scelta drastica ma coerente di ritirarsi dalla moda nel fatidico e travolgente 1968.
Diretta da Aitor Arregi, Jon Garaño e Jose Mari Goenaga, Cristóbal Balenciaga aspira ad essere il ritratto in piedi di un artista perbene, introverso ed enigmatico, pennellando un inevitabile affresco d’epoca che tutto ingloba e pone nero su bianco: i rischi produttivi durante l’occupazione nazista, il ruolo civile dell’artista nella politica, i pregiudizi verso l’omosessualità, la mercificazione dell’arte, l’intromissione invadente dei mass media.
A valorizzare il drappeggio di un sistema già glamour, tra gli scorci dell’alta società e le raffinate creazioni nei défilé, concorre il contorno di comprimari e camei illustri: amici e mentori di Balenciaga (Alberto San Juan) come Coco Chanel (Anouk Grinberg) e Christian Dior (Patrice Thibaud), allievi quali Hubert de Givenchy, la modella preferita Colette (Nine d’Urso), la musa mancata Audrey Hepburn (Anna-Victoire Olivier).
Cristóbal Balenciaga, la sinossi
Nel 1971, ai funerali di Coco Chanel, Balenciaga, storico couturier in pensione, viene avvicinato da Prudence Glynn, giornalista del “Times” per un’intervista sulla sua prestigiosa carriera. L’ex stilista acconsente, non senza riluttanza, rievocando il suo approdo a Parigi nel 1937, in fuga dalla guerra civile spagnola che mal consentiva di proseguire la sua acclamata attività nelle boutique di San Sebastiàn, Madrid e Barcellona.
Nella capitale francese dovrà farsi largo per lanciare il suo marchio, incoraggiato dalla sua confidente, Coco Chanel, ma anche dal rivale Christian Dior. Supportato, soprattutto durante il secondo conflitto, dai soci in affari e dal compagno, darà vita a sfilate indimenticabili (scrutate dietro le quinte in sacrale riservatezza), in cui rimodellerà, valorizzandola con eleganza, la silhouette femminile con capi armoniosi e sperimentali, senza corpetto o impalcature rigide.
È il trionfo, con sfide produttive e difficoltà personali, di un artigiano maniacale della haute couture, tra i pochi in grado di seguire ogni passaggio del procedimento sartoriale, dal bozzetto alla scelta dei tessuti fino alle prove con le modelle e alla gestione della stampa. Mentore di nuovi talenti come Hubert de Givenchy, vestirà regine, celebrità e socialite, fino all’inatteso ritiro nel 1968, per sdegno e sconfitta contro il prêt-á-porter che ne sviliva l’etica professionale, la tecnica, il talento.
Ritratto della maturità d’artista
Si scrive Cristóbal Balenciaga, ma si potrebbe leggere Citizen Kane. Nulla in comune tra lo stile barocco, flessuoso e dirompente del capolavoro di Orson Welles e il linguaggio seriale solido e accomodante dei tre registi Aitor Arregi, Jon Garaño e Jose Mari Goenaga, se non l’orchestrazione drammaturgica che guarda al paradigma, tante volte osservato ed emulato, di Quarto potere. Anche qui infatti un giornalista insegue per un reportage il discernimento di un enigma umano, un personaggio confinato nel silenzio della leggenda, per ripercorrere con lunghi flashback la sua scalata al successo, sviscerando, nel caso Balenciaga, diafane luci e rade e assolvibili ombre.
Proprio nel taglio interpretativo con cui la sceneggiatura maneggia la psicologia del personaggio, Cristóbal Balenciaga rivela le sue smagliature di sbiaditezza narrativa, il versante incompiuto dietro il centrato e sontuoso apparato produttivo che riesce a conferire alla serie un’estetica marmorea e un allestimento storico di ambizioso respiro.
Pur con la performance accurata e mimetica di Alberto San Juan, attore amatissimo in Spagna, la sceneggiatura di Lourdes Iglesias ed Eduardo Navarro si appropria con troppa sicurezza di un personaggio che fece del mistero una virtù e una ragione d’essere, perseguendo lo svelamento del couturier per comparti, dove ogni episode introduce il tassello di una personalità in realtà insondabile per natura e vocazione.
Appianato da una caratterizzazione alquanto monolitica nell’arco temporale, Cristóbal Balenciaga rivive qui di difficoltà esteriori ma non di intime contraddizioni, di traumi accennati ma non indagati, di posata saggezza ma non di umani ripensamenti e vacillamenti. Ne consegue un didascalico ritrattismo che inficia il fascino più segreto e seducente nella storia della moda, con rare eccezioni di un più affinato scandaglio psicologico nell’ultimo episodio.
Cristóbal Balenciaga, l’eleganza dell’arcano
Battezzato da Cecil Beaton “il Picasso della moda”, di lui, tra i numerosi estimatori, scrisse Diana Vreeland, storica redattrice a capo di “Vogue”:
“Balenciaga è il più grande sarto che sia mai esistito, […] se una donna entrava in una stanza indossando un suo vestito non si vedeva più nessun’altra”.
Incline a un’aristocratica riservatezza, non malinconica ma improntata sulla concretezza, avverso alle autocelebrazioni, ai fragori pubblicitari e alle fughe di notizie sui media, tanto da rifiutare anteprime per la stampa e a nascondere strenuamente la sua omosessualità: questo fu il figlio di un pescatore e di un’umile sarta, nato a Getaria nel 1895 e scomparso per un improvviso attracco cardiaco nel 1972 vicino a Valencia.
Se qui si dipana fin troppa sostanza attorno al cosiddetto “mistero” Balenciaga, intaccando l’incanto della sua aura mistica e inaccessibile, seppe invece accostarsi a quella sinuosità, pur con le licenze dell’elaborazione fantasiosa, Paul Thomas Anderson ne Il filo nascosto (2017). E se le complicazioni economiche della guerra e sociali dell’omofobia vengono solo pennellate in scene preconfezionate, allora in Cristóbal Balenciaga ad attrarre è la grande fucina dell’alta moda di cui Balenciaga fu tenace promulgatore o, ricordando una delle citazioni poste in epigrafe a ogni episodio,
“l’unico vero couturier, gli altri sono solo fashion designer”. (Coco Chanel)
La Camelot della bellezza
È un universo che non esiste più, di studiata ma non estenuante ricostruzione, intriso della nostalgia per ciò che non si è mai vissuto. È l’impero algido e impeccabile dell’alta moda su misura delle clienti, dove le sfilate, nel silenzio ieratico di un tempo cristallizzato, duravano quasi due ore e non i dieci minuti odierni; dove l’abito (vero protagonista insieme al copricapo e non di contorno al marketing di borse, profumi e cosmetici) veniva cucito, scomposto e ricucito fino alla perfezione assoluta.
Dove la contraffazione era bandita per un’ideologia più di autenticità artistica che di danno finanziario e il consumismo spersonalizzato del prêt-á-porter aleggiava in modo predatorio fino allo spodestamento finale, perché the times they are a-changin’ nel furore del Sessantotto, spartiacque di altre rivoluzioni.
Per restituirne l’apollinea ed elitaria compostezza di satinata bellezza e savoir-faire, Cristóbal Balenciaga si è avvalso di un apparato tecnico ramificato ed esperto, che ha lavorato in novanta set in tutta Europa. All’apice il lavoro della costumista Bina Daigeler, che con il suo team ha ricreato con certosina fedeltà i capi più rappresentativi se non iconici del couturier, tramite ricerche d’archivio, selezione di tessuti, realizzazioni a mano, collaborazioni con le maison francesi.
Si respirano così le architetture di pieni e vuoti di Balenciaga, il fulgore di inedite cromie, l’autorevolezza aristocratica delle première, l’esecuzione meticolosa nell’atelier, la grazia delle linee e la modernità scultorea della forma, l’innovazione nei volumi, l’ispirazione alla tradizione pittorica spagnola, la poetica tattile della texture, che può bandire una seta perché contiene poliestere. Capi nuziali in visone, abiti squadrati, spostamento del giro vita, tuniche, mise baby doll, vestiti giacca, gonne a palloncino: la rivoluzione di Balenciaga è qui, illustrata con la medesima gentilizia sobrietà e il rigoroso nitore del suo creatore.
Parigi aurea: il tempo perduto e ritrovato
La serie, oltre a restaurare la memoria del geniale sovrano in tre decenni irripetibili e la filosofia di una moda non ancora contaminata dalle attuali logiche fameliche del fast fashion system, riesce a rendere vividi e appassionanti altri coprotagonisti e comprimari di quel capitolo di storia.
Grazie a interpretazioni precise che eludono il rischio del macchiettismo, entrano in scena quelli che sono più che meri figuranti: una meritocratica, altera e suscettibile Coco Chanel, il signorile e leale Christian Dior, l’incoraggiante stratega Carmel Snow (un’antesignana di Anna Wintour), il modista e amante Wladzio Jaworowski d’Attainville, una deliziosa comparsata di Audrey Hepburn (che Balenciaga indirizzò al francesissimo Givenchy per i costumi di Sabrina di Billy Wilder).
Cristóbal Balenciaga, la rivoluzione della femminilità
In fondo, pur con qualche limite espressivo, Cristóbal Balenciaga è il racconto di riscatto dell’identità di un’artista perfezionista, inimitabile e influente, contro i clamori mediatici e le svendite del mercato d’oggi, contro i rimaneggiamenti e le deviazioni infedeli della sua ispirazione. È lo strappo di uno sguardo non conservatore ma esplorativo che, con senso del pacato intrattenimento, riesce a cogliere la liberatoria evoluzione di costume che Balenciaga ha donato alle donne.
Se in una scena di Triangle of Sadness (Palma d’oro a Cannes nel 2022) si scimmiottava l’attuale brand come epitome di lusso standardizzato e pacchiano, questa miniserie, ritorno ai fasti delle origini, ci rammenta che Cristóbal Balenciaga è stato:
“Il maestro di tutti noi”. (Christian Dior)