N’en parlons plus è un documentario del 2022 scritto e diretto da Cecile Khindria, giornalista parigina alla sua prima regia, e Vittorio Moroni, sceneggiatore e regista di numerosi film, tra cui L’invenzione della neve del 2022. N’en parlons plus è stato candidato al Torino Film Festival (TFF), al African Asian and Latin America Film Festival (FESCAAAL) e al Sole Luna Doc Film Fest. Quest’anno il film parteciperà, nella sezione ITA-DOC, alla seconda edizione del Rome International Documentary Festival (RIDF), un concorso finalizzato a portare in sala alcuni promettenti documentari italiani e internazionali dell’ultima stagione, che si terrà dall’1 al 7 dicembre 2023.
La trama
Sarah ha 30 anni e da poco è diventata madre. Nessuno della sua famiglia, soprattutto il padre, ha mai rotto il silenzio sulla guerra vissuta in Algeria e la successiva fuga in Francia. Suo nonno era un harki, ossia un algerino che combattè a fianco dei francesi contro il Fronte di Liberazione Nazionale (FLN), che voleva l’indipendenza. La Francia però, una volta persa la guerra, voltò le spalle agli harki, che invece di essere accolti e aiutati ad integrarsi, vennero rinchiusi in campi “temporanei” circondati da filo spinato. Bias è uno di questi, ed è proprio qui che Sarah decide di interrogare chi ha sperimentato la stessa sorte della propria famiglia.
Una storia in ombra
Al centro di N’en parlons plus vi è il desiderio di raccontare un capitolo di storia per lungo tempo ignorato e tutt’ora poco conosciuto. Video di telegiornali francesi a confronto con testimonianze dirette, rendono questo documentario una vera doccia fredda. Spesso è più comodo far finta di non vedere, lasciare che le brutture del genere umano cadano nel dimenticatoio. Sarah inizia la sua ricerca spiegando che la volontà di toccare con mano le proprie radici, riaffiora proprio con la nascita di sua figlia. Un messaggio forte, un parallelismo tra le mostruosità del passato e la speranza in un futuro che non ne ripeta gli errori.
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Lirica di un’emozione senza voce
Il documentario si apre con molte porte chiuse. Dopo il fallimentare tentativo di intervistare la famiglia, Sarah si reca a Bias per parlare con chi non se n’è mai andato. All’inizio non ha fortuna nemmeno qui, ma successivamente le persone le danno fiducia, iniziando ad aprirsi sempre di più. La difficoltà nel ripescare quei ricordi macabri dalla memoria risulta veramente comprensibile, solo quando i più coraggiosi iniziano a raccontare. A quel punto il dolore prende forma dalle parole, anche se gli occhi degli intervistati parlano molto di più. Non vi è solo tristezza, ma anche la rabbia di chi è stato tradito, abbandonato, emarginato. I video di repertorio ci mostrano uomini, donne, bambini: solo sguardi persi in promesse mai mantenute. I primi piani che accompagnano l’intero documentario sono quindi necessari a questa narrazione che non vuol mostrare nient’altro che la verità, e non ha bisogno di artefatti per raggiungere lo scopo.
Una velata nudità
La bellezza di questo film sta nel rispetto con cui Cecile Khindria e Vittorio Moroni ci hanno introdotto nelle case e nell’intimità di chi ha subito tali eventi traumatizzanti. Molti uomini parlano di come abbiano deciso di continuare a vivere nel campo per l’incapacità di fare altrimenti. Alcuni non hanno mai imparato il francese, altri non hanno mai indossato vestiti diversi da quelli che si sono portati dall’Algeria. Malgrado le voci rotte dal pianto e i racconti di violenze, della paura di vivere rinchiusi con malati di mente, stupratori, pedofili, non vi è alcun sensazionalismo. Non serve. Ancora una volta, a premiare è la sincerità.
Oltre all’argomento trattato, anche l’approccio che ha questo documentario è estremamente educativo. Noi che possiamo, noi che non abbiamo fantasmi con cui scontrarci, abbiamo il dovere di scavare nel passato, anche quando è scomodo o troppo crudo. Anche quando i mostri siamo noi.
Questa e altre novità al Rome International Documentary Festival (RIDF)