“L’elemento del crimine”, primo lungometraggio di Lars Von Trier (1984), colpisce per la complessità visiva e l’intricata trama narrativa, mettendo immediatamente in guardia lo spettatore sulle ambizioni e le capacità di un giovane autore irrequieto e visionario.
Atmosfere ferruginose tarkovskijane, cieli plumbei e piogge incessanti alla Blade runner, personaggi notturni e osceni wellesiani, oltre che riflessioni ossessive rievocanti il Lang del periodo tedesco: L’elemento del crimine, primo lungometraggio di Lars Von Trier (1984), colpisce per la complessità visiva e l’intricata trama narrativa, mettendo immediatamente in guardia lo spettatore sulle ambizioni e le capacità di un giovane autore irrequieto e visionario.
Ciò che però costituisce l’originalità del film è la mobilità anarchica della MDP che, smarcando sistematicamente le usuali traiettorie visive, si relaziona agli oggetti in maniera tale da decomporne la forma, fornendo un accesso alle “porte regali” dell’invisibile. Ci si affranca dalla “legalità” della rappresentazione per giungere nelle caotiche regioni dell’informe, laddove l’unità dell’organico viene disattesa in favore della molteplicità dell’inconsistente. È un corpo a corpo con l’immagine che ne sfalda i contorni fino a renderla non più visibile, polverizzandola in granelli di luce lunare che di disseminano disordinatamente sul tappeto nero della notte del mondo, dove trionfa il flusso scomposto degli oggetti parziali. Si assiste al tentativo eroico di risalire all’origine della coscienza, prima che l’economia dei fatti prevalga sull’imprevedibilità dell’evento o, se preferite, prima che la logica dello scambio s’imponga sulla gratuità delle azioni. In quest’ottica L’elemento del crimine pare proprio un’operazione inversa rispetto a quella intrapresa da Lars Von Trier nel suo ultimo e discusso film, Antichrist, in cui l’esigenza di dare forma all’orrore si è tradotta in numerose sequenze raccapriccianti, troppo frettolosamente obliterate come eccessive.
D’altronde la libertà, l’orrore e il caos sono questioni che ossessionano il regista danese, e la maniera di trattarle varia a seconda dell’effetto che si vuol ottenere sullo spettatore.
Fisher, protagonista del film, conduce, sotto ipnosi, un viaggio nel cuore dell’Europa alla ricerca di un omicida e, per stanarlo, ne ripercorre tutti i movimenti, fino ad immedesimarsi completamente. L’esito è prevedibile: sarà lui stesso a commettere l’efferato delitto. L’orrore che credeva fuori di sé, in realtà albergava già da sempre in lui. L’acqua, che presenzia in ogni scena, rivela la sua natura corruttrice, penetrando impudicamente ovunque; anzi vi si è completamente immersi, come pesci in un acquario. L’acqua è l’elemento del crimine.
La sospesa sequenza iniziale di Antichrist, in cui al coito dei coniugi si sovrappone la morte del figlio, oltre a riproporre il consunto adagio freudiano eros/thánatos, evidenzia come la “mancanza” strutturale della realtà umana ne costituisca, paradossalmente, la più specifica risorsa. L’ambiguità, l’equivocità e l’insuperabilità delle contraddizioni sono materiali creativi vivi che perseguitano l’artista, come negli ultimi fotogrammi, dove uno stralunato William Defoe è braccato da una schiera di giovani donne, cui non potrà mai sfuggire. Ciò che ne L’elemento del crimine è fantasma diviene corpo in Antichrist. È lo spettro che ritorna, ancor più virulento, perché si è provato a disfarsene.
L’elemento del crimine fa parte di una trilogia che comprende Epidemic e Europa, gli altri due film in cui si articola la riflessione del regista sulla condizione umana, e da cui sono proliferati i vari manifesti per un cinema nuovo. Se come dice Lars Von Trier “un film è un sassolino nella scarpa”, preparatevi ad una visione dolorosa, ma soprattutto utile al tentativo di riordinare i tasselli dell’interminabile mosaico dell’esistenza.
Luca Biscontini
Registrati per ricevere la nostra Newsletter con tutti gli aggiornamenti dall'industria del cinema e dell'audiovisivo.