Quarant’anni dopo l’esordio alla regia di Marco Risi, esce finalmente un saggio che raccoglie tutta la sua filmografia, da Vado a vivere da solo a Il punto di rugiada, con una lucida capacità di analisi e sintesi che racchiude il lavoro di una vita.
Il libro di Davide Magnisi (progettato insieme a Lorenzo Procacci Leone) rende benissimo la volontà di Risi di non volersi irrigidire in un unico genere, a vantaggio della sperimentazione, anche a costo di deludere le aspettative del pubblico, o di rischiare con alcune sue produzioni indipendenti.
Il cinema d’impegno, per me, è sempre l’impegno di fare bei film (Marco Risi)
Il cinema di Marco Risi non tralascia nulla della sua filmografia. Dal trittico leggero con Jerry Calà, che accenna alla nevrosi di allora, ahinoi, ancora attuale (lo shampoo compulsivo di Calogero in Un ragazzo e una ragazza, fa ridere e pensare) all’impegno di Mery per sempre, Ragazzi fuori e Il muro di gomma. E poi il ritorno alla commedia, interrotto dalla lieve intensità (ossimoro che dovrebbe piacergli!) del bellissimo Fortàpasc.
Dal registro scanzonato dell’inizio, all’impegno civile, al coraggio della denuncia e della critica politico-sociale. Per arrivare poi alla levità de Il punto di rugiada, che più di tutti sa contenere dramma e commedia in una cornice misurata che li valorizza.
Nella lunga intervista di Davide Magnisi, Marco Risi parla anche di un suo desiderio: quello di realizzare una favola, intitolata Settimo cielo. Al centro, persone stravaganti che vivono sui tetti, in una dimensione che richiama Il Barone rampante. E chissà che alcune scene svagate e sognanti de Il punto di rugiada non siano elementi di raccordo per un film così diverso da tutti gli altri!
Il cinema di Marco Risi: l’intervista
Chi scrive si è lasciata piacevolmente coinvolgere dal fluire dell’intervista di Magnisi che occupa la parte centrale del volume. Magnisi sa porre serenamente le domande giuste e Risi risponde altrettanto serenamente. Parlando senza filtri del suo lavoro, dei film amati tutti come figli, anche quelli meno riusciti, per i quali non risparmia le auto-critiche. “Avrei potuto fare meglio”, dice. I rischi, i rifiuti, i successi, le soddisfazioni, le delusioni, le libertà, le imposizioni produttive. E un sano compiacimento per le cose belle che ha saputo realizzare.
Senza astio, ma ribadendo di non condividerli, accenna anche alle recensioni frettolose, ai giudizi malevoli (Retorica ricattatoria, dice addirittura Lietta Tornabuoni su La Stampa ai tempi di Ragazzi fuori. Ma come ragionavamo allora?). E al paragone snervante con Dino Risi: «Di frecciate, sul cognome che mi porto, ce ne sono state tante, però dopo sono riuscito ad affrancarmi. E il primo a riconoscerlo è stato papà».
Secondo l’opinione di David Grieco, riportata ne Il cinema di Marco Risi: «A Marco non è mai stato concesso di essere se stesso perché figlio di Dino Risi. Ecco un caso in cui essere figli d’arte può essere una vera jattura». Sarà stato davvero così?
Marco e Dino Risi
Marco e Dino Risi
Non si può fare a meno di accennare al rapporto di Marco Risi con il padre, perché ricorre più e più volte nel libro e non potrebbe essere altrimenti. Davide Magnisi, nell’intervista e qua e là (anche nella scelta dei giudizi critici) rende l’idea di una relazione fondamentale, nella vita e nell’arte. Marco ha sempre tenuto molto al giudizio del padre. Dino lo ha spesso incoraggiato, se pure con critiche brusche e sincere. Di fatto, non lo ha mai ostacolato.
L’omaggio di Marco Risi a Dino Risi, nell’ultimo film (e nel libro a lui dedicato, Forte respiro rapido) suggerisce un vissuto interiore pacificato, più di gratitudine che di rimpianti.
Un volume dal respiro ampio
Da questo incontro generazionale, privato e collettivo, il libro sul cinema di Marco Risi diventa anche un libro sul cinema italiano. Grazie alla costruzione del volume con più voci: gli interventi critici su tutti i suoi film e le testimonianze di chi lo ha conosciuto da vicino: Enrico Vanzina, Massimo Spano, Claudio Amendola, Sandro Petraglia, Aurelio Grimaldi, Giorgio Tirabassi, Valentina Lodovini, Donatella Finocchiaro, Andrea Purgatori.
La dedica al compianto Andrea Purgatori, co-sceneggiatore insieme a Risi per Il muro di gomma, e altri film, rende il volume ancora più prezioso. Nell’intervista di Magnisi, il regista racconta che si deve a Purgatori l’espressione stessa muro di gomma, che restituisce perfettamente il silenzio delle Istituzioni, e come le richieste di chiarezza (e di giustizia) siano rimbalzate e continuino a farlo perché il muro di gomma, purtroppo, esiste ancora.
Da “Il muro di gomma”
E dalla struttura e contenuto semplificati
Chi ha detto che la semplicità è una complessità risolta? Il libro di Davide Magnisi è denso e ricco, ma lineare e agevole nello stesso tempo, pur offrendo molteplici sguardi. Possiede un impianto, ripetuto a ogni tipo di approccio, che mantiene l’ordine cronologico funzionale alla consultazione. Non esclude i commenti negativi di nomi affermati nel panorama cinematografico di questi ultimi quarant’anni: gli abbagli, le cantonate, le prese di posizione, le critiche severe, argomentate. E gli entusiasmi, come quello di Alberto Crespi: “Finché esistono film come Fortapàsc, questo paese non è morto”.
Gli interventi, oltre alla sezione approfondita di Davide Magnisi, sono di Massimo Arciresi, Valerio Caprara, Roberto Chiesi, Beatrice Fiorentino, David Grieco, Gordiano Lupi, Francesco Saverio Marzaduri, Frédéric Pascali, Lorenzo Procacci Leone, Mariangela Sansone, Ignazio Senatore, Fabio Zanello.
Si possono leggere uno di seguito all’altro, per ricostruire la filmografia del regista, ma si può girellare all’interno del libro per soddisfare, a modo nostro, la nostra curiosità di lettori. Un giudizio riassuntivo dell’autore, Davide Magnisi, su Marco Risi:
“In una filmografia così varia e diseguale, Marco Risi indaga nelle strutture di formazione e nelle forme di coscienza della collettività, attraverso il privato dei personaggi e il pubblico della nazione, anche nei suoi punti oscuri o rimossi. Se le commedie ci pongono di fronte allo specchio di una sorta di costruzione simbolica dell’identità collettiva, rapportandosi, dialetticamente o parodicamente, agli stili di vita dominanti, ai desideri e all’immaginario che plasmano una società, il cinema d’impegno scava nelle nostre cattive coscienze sociali e nazionali. Sono due categorie cinematografiche d’interpretazione del reale che indagano, come il cinema dei padri ci ha insegnato, nelle dinamiche identitarie del nostro spesso ridicolo, e a volte martoriato, Paese”.
Editing Sandra Orlando