Curioso e beffardo il destino riservato ad Asteroid City di Wes Anderson, Killers of the Flower Moon di Martin Scorsese e Strange Way of Life di Pedro Almodóvar. Tre recenti film di grandi registi presentati al Festival di Cannes 2023 (solo Anderson in concorso, uscito a mani vuote) a cui è stata riservata un’accoglienza restia di critica e poi fredda di pubblico.
Eppure sotto la scorza, scomoda ai più, di uno sguardo autoriale in metamorfosi, di un ritmo più placido e meno fiammeggiante, di una durata malagevole per la distribuzione in sala (i trenta minuti di Strange Way of Life e soprattutto le quasi tre ore e mezza di Killers of the Flower Moon) si cela qualcosa di più sofisticato da esaminare, tra cui un innovativo approdo del western.
Il western non abita più qui?
Non solo emerge una sperimentazione formale coerente con i mutamenti in corso nell’audiovisivo e fedele al proprio longevo iter artistico, ma anche indicativa dello status e delle potenzialità di un genere. Dal western (che negli ultimi anni ha attratto registi di conclamata levatura, da Jane Campion a Walter Hill, da Jacques Audiard a Jordan Peele) Anderson, Scorsese e Almodóvar attingono per riformulare altro, in un’indipendente e singolare sincronia di intenti. E ben al di là dell’apparato scenico tra le Montagne Rocciose, delle avversità con le tribù indiane, delle sparatorie tra cow boy, delle tentate fughe in Messico.

Ne deriva un cinema che si adagia sui canoni illustrativi del western per sfociare poi in sfumature controcorrenti di generi opposti, che svia per sottrazione o per provocazione da quei modelli narrativi, che fa implodere le figure filmiche che hanno contraddistinto quel radicato immaginario. Ma in questa operazione di appropriazione indebita, svuotamento e nuovo riadattamento, i tre registi si affidano alle scorie di un genere sempre redivivo per tematiche di sensibile attualità.
Fuori orario e la ballata degli esclusi
Asteroid City, ovvero il deserto, i cactus, i canyon, una carovana di carta, una strada che attraversa il nulla, la ferrovia, i cowboy canterini, ma anche ambiziose scienziate, militari dell’aeronautica, dive struggenti, Cadillac e pranzi al diner. Su tutto aleggia il manto anacronistico degli anni Cinquanta del Novecento, del riarmo nucleare (con i testi esplosivi) e della corsa allo spazio. Nonostante, però, sia le tensioni belliche che infiammavano la parte centrale di Oppenheimer di Nolan dal retrogusto western sia le attese messianiche di Incontri ravvicinati del terzo tipo di Spielberg siano opache presenze.
Si colloca quasi fuori tempo massimo nella periodizzazione western anche Martin Scorsese: siamo infatti tra gli anni Dieci e Venti del secolo scorso, quando gli Stati Uniti si avviavano verso nuove accelerazioni produttive ed economiche. Dietro i costumi dei nativi Osage, la politica egemonica, i cappelli Stetson, le colt e le fondine, il regista chiede solo in prestito l’armamentario visivo più immediato del genere, rinunciando al mito della frontiera e ai topoi dello spazio urbanizzato (la città di Fairfax, Oklahoma, è già troppo moderna per interpretare questo ruolo).
Più fedele al tessuto iconografico del western è Pedro Almodóvar, che colloca le sue sequenze nell’ufficio dello sceriffo, sulla strada polverosa e nel ranch e che assorbe un’estetica di genere a lui inedita con un intento tuttavia per nulla filologico o rivitalizzante. Siamo infatti nei dintorni del divertissement, dell’esercizio di stile sulfureo, un po’ provocatore ma in fondo nobile, come ci avvisa lo stesso autore da Cannes:
Non uno spaghetti western, casomai un western a modo mio dove due uomini pensano che amarsi potrebbe voler dire proteggersi e invecchiare insieme.
Tutto il Far West è un palcoscenico
Dentro quindi un’iconografia che ha segnato la storia del cinema statunitense e non, i tre registi si collocano al di là, nel superamento dei luoghi comuni e dei codici figurativi più usati e abusati, per scavare dietro le icone e oltre la leggenda. A tal proposito le parole di Scorsese:
Ero attratto dai western tradizionali più che da quelli psicologici. Ma conoscere la storia del cinema non deve servire a emulare, bensì a trovare ispirazione e ad evolvere. Quei film mi hanno nutrito ed esortato ad approfondire la storia.
Proprio lo scenario del vecchio West permette agli autori di percorrere la strada della sperimentazione narrativa, di addentrarsi in una dimensione ‘meta’, con una postilla sorprendente in Killers of the Flower Moon e addirittura una sovrastruttura caleidoscopica in Asteroid City.
Anderson infatti rende la vicenda principale una rappresentazione teatrale di uno pièce in scena a Broadway, per giunta presentata in un programma tv (in un gioco di scatole cinesi, come è stato definito). Scorsese invece, con un colpo finale da gran maestro, complessifica le gradazioni di punti di vista e voci narranti in un’aggiuntiva cornice narrativa ‘altra’, inaspettata, eccentrica, ammiccante, eppure sensibilmente rispettosa della sorta degli Osage.

Forse entrambi i registi sono memori delle origini più lontane e letterarie del western, dei suoi antesignani allestimenti teatrali. O forse sono consci della paradossale teatralità esponenziale del genere, per cui già Jean-Louis Comolli aveva spiegato che il paesaggio dell’Ovest è come una tela dipinta a teatro, una sorta di palcoscenico propizio allo svelamento dei drammi emotivi e personali.
Per un pugno di niente
Sia Asteroid City che Killers of the Flower Moon e Strange Way of Life iscrivono su di loro, fin dall’inizio, una non immagine: la figurazione del vuoto, della cavità, della vertigine, del baratro, che nella storia del western era stato per lo più colto nell’orizzontalità del paesaggio di canyon.
Il film di Wes Anderson più volte inquadra il cratere impresso dall’antico asteroide (due sequenze sono addirittura ambientate all’interno), che capeggia anche sui manifesti turistici sparsi per Asteroid City. Il corto di Almodóvar si apre proprio con un campo lungo su una depressione rocciosa. L’opera mastodontica di Scorsese, invece, prende avvio da una cerimonia funebre degli Osage, che sacrificano una pipa all’interno di una capanna ombrosa. Da lì a poco, come un vulcano in eruzione, dalle viscere invisibili di quel campo zampillerà il petrolio, fonte di ricchezza e morte violenta per i nativi indiani.

E su questa metafora inaugurale i tre autori ergono film che riflettono e indagano sui disequilibri di una città retro-futuristica che in realtà non esiste, sugli stermini delle minoranze perpetuati dal cinico capitalismo americano, sulle attrazioni del desiderio omoerotico non adeguatamente esplorate neppure nei territori western battuti dalle correnti d’avanguardia. Quindi, sulla perdita e sul vuoto dell’umano, del suo sentire, dei suoi diritti.
Gli abbracci spezzati nel deserto
Figurare l’assenza diventa una priorità espressiva per i film di Anderson, Scorsese e Almodóvar. Si tratta di un’assenza che mina le relazioni umane tra i personaggi, in particolare quelle sentimentali, tutte logorate da un’impossibilità di fondo. Troviamo lo svuotamento di significato nella civiltà in corso (Asteroid City), l’avidità predatrice verso il prossimo (Killers of the Flower Moon), la violazione del corpo altrui (il femminicidio alla base di Strange Way of Life).
Nella distintiva e geometrica configurazione spaziale della cinepresa di Anderson non si contano le scene di conversazione giocate sui piani frontali dei personaggi. Tra le tante, si stagliano quelle della coppia mancata costituita da Midge (Scarlett Johansson) e Augie (Jason Schwartzman).

This image released by Focus Features shows Scarlett Johansson in a scene from “Asteroid City.”
Inquadrati alla finestra del loro abitacolo in mezzo al deserto, i piani frontali di uno e dell’altro vengono contrapposti senza una logica speculare e sovrapponibile, à la Ozu: entrambi posizionati al lato destro del quadro, i loro sguardi non si incrociano nei dialoghi sospesi e ondivaghi, espressione della precarietà delle loro esistenze.
Un bacio e una pistola: schegge di un discorso amoroso
In Killers of the Flower Moon il primo incontro tra Errnest (Leonardo DiCaprio) e Mollie (Lily Gladstone) è sì un campo-controcampo classico di sguardi, ma attraverso il riflesso nello specchietto retrovisore dell’automobile che Ernest, da chauffeur, sta guidando, come nella scena conclusiva di Taxi Driver con Robert De Niro e Cybill Shepherd. Un rapporto già all’insegna del distacco, dell’opacità, dell’intangibilità.

Un ulteriore e fatale dislivello emotivo viene consolidato nell’ultima sequenza di conversazione tra i due, dove Scorsese spezza la logica di alternanza di piani in mezza figura, quando Mollie, di fronte a una risposta ferocemente ipocrita di Ernest, lascia la stanza. E resta solo il volto di DiCaprio, ammutolito, in un piano di ascolto in cui, nel fuori campo, risuona il rumore di una sedia abbandonata e dei passi che si allontanano.
Similmente accade in Strange Way of Life, dopo un’accesa discussione all’interno della coppia ormai compromessa da un presente delittuoso, quella di Silva (Pedro Pascal) e Jake (Ethan Hawke). Silva tenta di riallacciare un rapporto di solidarietà e la cinepresa di Almodóvar sosta sul primo piano pensieroso e quasi rinunciatario di Jake, che non risponde all’amante e guarda verso il fuori campo. Si inquadra quindi l’oggetto osservato, lo scorcio paesaggistico su cui si affaccia la finestra della stanza.
Ancora una volta, come negli altri film, si lavora sull’interruzione della continuità, sullo scarto più refrattario, sulla negazione più eloquente.
Il sentiero selvaggio dei generi incrociati
Western come intelaiatura estetica, palcoscenico che rompe la quarta parete, strumento di vivisezione dell’incubo americano o dei chiaroscuri della passione omosessuale trascurati dalla storia del cinema. Ma anche come canovaccio da colmare per approdare ad altri codici narrativi. Non nuovo, storicamente, a contaminazioni con altri generi (dal mélo al giallo, dal war movie alla parodia), il western di Anderson, Scorsese e Almodóvar si trasmuta in altro affievolendo senza remora alcuna la sua natura intrinseca.
Così Asteroid City ingloba elementi fantascientifici con garbo e ironia (l’apparizione dell’alieno). Strange Way of Life incastona un’importante sequenza di attrazione crescente che fornisce al corto la sua ragione d’essere. Qui il regista spagnolo cesella l’anima del mélo in una messinscena di rifiniti dettagli e languidi cromatismi, in un décor tardo ottocentesco tattile e vellutato. Come se fossimo in un vero budoir, ma con uno sceriffo e un fuorilegge.

Più sofisticato l’approccio di Killers of the Flower Moon, che iscrive in sé le parabole gangsteristiche di Quei bravi ragazzi e Gangs of New York, senza però il loro andamento adrenalinico di torva e maledetta epopea. Scorsese rilancia la sua poetica modernista girando nello stesso tempo un giallo senza vero intrigo, un thriller con tensione allentata, un mélo di devozione criminale.
E lo spettacolo continua…
Coerentemente al loro accostamento al western come uno scrigno sepolto da cui attingere senza riesumare acriticamente e su cui edificare nuove prospettive, Anderson, Scorsese e Almodóvar firmano un cinema sulla profondità dietro il silenzio, l’intangibile, il rimosso, senza smarrire però la compostezza dei narratori di razza.
Grazie e al di là delle regole di genere, orchestrano regie che indugiano sul senso di annichilimento del nostro tempo, riscattano le minoranze trascurate senza troppe concessioni al cinema più sensazionalistico e digeribile, sfidano il frastuono fagocitante e la velocità convulsa dell’oceano dell’audiovisivo. Regalandoci però visioni precise, raffinate e godibilissime.