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Wim Wenders: il regista che ha diretto “Il cielo sopra Berlino”

Gli inizi, le tappe e la poetica di Wim Wenders, il cineasta di Düsseldorf.

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Gli inizi, le tappe e la poetica del pluripremiato Wim Wenders, un regista mondiale, che con i suoi film ha girato quasi ogni parte del mondo, facendo della sua filmografia un viaggio, restando fedele a quello che è uno dei suoi leitmotiv principali: il road trip. 

Wenders inizia insieme ad altri colleghi, come Rainer Werner Fassbinder e Werner Herzog, dal movimento del Nuovo cinema tedesco per arrivare in tempi recenti al Festival di Cannes con l’ultimo Perfect Days. Più di cinquant’ anni sulle strade del mondo del cinema, nelle vesti di regista, sceneggiatore, produttore e, alle volte, attore. Tante sono anche le collaborazioni e le amicizie strette con altri rappresentanti della settima arte, ad esempio con l’italiano Michelangelo Antonioni, il già citato Werner Herzog o il regista Chris Marker.

Le parentesi precedenti

Nato a Düsseldorf nel 1945, Wenders, rima di trovare la sua strada nel mondo del cinema, fa sosta in varie tappe intermedie. Volendo seguire le orme del padre, studia medicina a Friburgo in Brisgovia dal 1963 fino al 1964, poi decide di cambiare e dedicarsi alla filosofia. Frequenta quindi l’università di Düsseldorf dal 64 fino al 65. Lascerà infine anche questo percorso di studi per andare in Francia a fare il pittore. A Parigi trova lavoro come incisore presso lo studio di Johnny Friedlander a Montparnasse. In questo periodo inizia ad appassionarsi seriamente al cinema, guardando più pellicole al giorno.

 

“I started making movies as an extension of painting. I wanted to be a painter, but it is difficult to catch the element of time in images. So as a painter it made a lot of sense to start using a camera. […] There were no artists who worked with film […] Most famous was probably Andy Warhol. I thought that was the future. I don’t think of myself as a painter anymore. […] For me it is all about the story that I am trying to tell.”

Gli inizi e il Nuovo cinema tedesco

Nel 1967 torna in Germania e frequenta l’Accademia di cinema di Monaco. Tra il 67 e il 70 lavora come critico in varie riviste e gira anche diversi corti per poi laurearsi con il suo primo lungometraggio: Summer in the city (1970). Film girato in bianco e nero che rappresenta anche l’inizio della storica collaborazione con il direttore della fotografia Robby Müller.

Negli anni Settanta quindi la figura di Wenders inizia a emergere come uno dei nuovi nomi del cinema tedesco, che era sotto un processo di rinnovamento. 

 

“Der alte Film ist tot. Wir glauben an den neuen”

Così dichiarava provocatoriamente il manifesto di Oberhausen agli inizi del movimento che oggi chiamiamo “Nuovo cinema tedesco”. La citazione significa: “Il vecchio cinema è morto, noi crediamo nel nuovo cinema”. E sarà proprio Wenders, fra i vari nomi, a dare un contributo come nuovo astro nascente, insieme a Volker Schlöndorff, Werner Herzog, Jean-Marie Straub, Hans-Jürgen Syberberg e Rainer Werner Fassbinder. Ispirandosi ai francesi della Nouvelle vague e ai neorealisti italiani, questi registi realizzano film a basso costo finendo eventualmente per portare su di loro le attenzioni di varie produzioni ad alto budget. Il loro scopo è quello di costruire una nuova industria che mira all’eccellenza artistica e intellettuale.

Prima di Alice nelle città

Da La lettera scarlatta (1973) Wenders rimane deluso, nonostante la pellicola tratta dal romanzo di Nathaniel Hawthorne rappresenti un po’ quel mito americano che il regista rincorre. Da questa esperienza lui decide di fare un film con persone che conosce, con cui si trova bene. In questo periodo nasce l’idea di Alice nelle città con Rüdiger Vogler e Yella Rottländer. Il primo ha lavorato con Wenders ne La paura del portiere prima del calcio di rigore (1972). La seconda invece l’ha incontrata proprio grazie a questo film che l’ha deluso. I due sono i protagonisti del primo capitolo della cosiddetta ‘trilogia della strada’, termine che è stato utilizzato per la prima volta nei confronti di Wenders dal critico Richard Roud.

Alice nelle città ha rischiato di non vedere mai la luce per ché, quando Wenders lo stava ancora ideando ha visto  Paper moon di Bogdanovich. Trovandolo troppo simile a quello che poi sarebbe stato Alice nelle città, Wenders esclude l’idea di girare un film che potesse esser considerato una copia di quello di Bogdanovich. Il regista è poi stato convinto a iniziare comunque il progetto.

Sulla strada

La trilogia della strada è una serie di film che Wenders gira tra il 73 e il 75: Alice nelle città (1973), Falso movimento (1974), Nel corso del tempo (1975). In tutti e tre i film protagonista è Rüdiger Vogler, lo stesso volto per tre pellicole in cui il viaggio è un qualcosa di fumoso, non definito, spesso fatto di silenzi e di tempi dilatati (Wenders in questo senso è un fan di Antonioni, con cui tra l’altro dirigerà il film Al di là delle nuvole). Percorsi lungo la strada che sembrano non avere né capo né coda solo per diventare più definiti mano a mano che i minuti passano. L’immagine del mondo è protagonista attraverso i vari campi lunghi e la bellissima fotografia in bianco e nero di Robby Müller che gestisce anche i colori di Falso movimento

Un mondo, quello della Germania Ovest, in cui i personaggi sono alienati rispetto alla loro stessa casa, e intraprendono un percorso sulla strada che non finisce necessariamente con una scoperta positiva, un’illuminazione, ma piuttosto con una presa di coscienza che comunque lascia spazio a altro, a un orizzonte speranzoso.

Il riconoscimento internazionale

Dopo la trilogia della strada, Wenders acquista notorietà con il film tratto dal romanzo di Patricia Highsmith. L’amico americano (1977) è infatti un successo, ed è proprio la pellicola con Bruno Ganz e Dennis Hopper a far emergere il regista tedesco nel panorama cinematografico internazionale.

Passa quattro anni in America prima di tornare in Germania a dirigere Lo stato delle cose (1982), film che gli è valso il prestigioso Leone d’oro.

L’America di Wenders

Con Paris, Texas (1984), Wim Wenders esprime il suo desiderio di raccontare “una storia sull’America”, una storia figlia di quella formula già utilizzata nella trilogia della strada: il road-trip. Le riprese sono iniziate nel 1983 quando la sceneggiatura era ancora incompleta, Sam Shepard, sceneggiatore insieme a Wenders, aveva pianificato di scrivere la storia mentre le riprese andavano avanti affidandosi poi all’evolversi del tutto per trovare il seguito della sceneggiatura.

Protagonista è Harry Dean Stanton che fino ad allora non aveva mai avuto un ruolo di rilievo in una pellicola. Il suo Travis è un personaggio che inizia il viaggio nel deserto del Texas, senza memoria e in stato confuso. Il suo unico obiettivo è di arrivare a Parigi (Texas). Sostanzialmente lui è una tela bianca che si riflette anche in quella desolazione rappresentata magistralmente da Wenders e dalla fotografia di Müller . La loro è un’America che cambia, che si riempie progressivamente come il protagonista, partendo da paesaggi e strade vuote fino ad arrivare ad autostrade affollate e città con grattacieli e peep-show. 

Tutto è impreziosito dalla bellissima colonna sonora di Ry Cooder, dalle sonorità nostalgiche e desertiche. Lui stesso dirà questo in relazione all’ideazione della musica per il film, dando dei meriti a Wenders per la riuscita della soundtrack:

“[Wenders] did a very good job at capturing the ambience out there in the desert, just letting the microphones … get tones and sound from the desert itself, which I discovered was in the key of E♭ … that’s the wind, it was nice. So we tuned everything to E♭”.

Nel 1984 il film vince la Palma d’oro al Festival di Cannes. Il famoso critico Roger Ebert su Paris,Texas si esprimerà in questa maniera:

 

“[it’s] a movie with the kind of passion and willingness to experiment that was more common fifteen years ago than it is now. […] It is true, deep, and brilliant”.

 

Una Berlino in bianco e nero

Dopo Paris,Texas, Wenders torna in Germania a girare un film totalmente diverso. Il cielo sopra Berlino (1987) è una pellicola in bianco e nero che vira verso il genere fantasioso attraverso la presenza di due angeli, Damiel e Cassiel, interpretati da Bruno Ganz e Otto Sander. Queste figure si aggirano per le strade di Berlino osservando gli abitanti, ascoltando i loro pensieri e cercando di venire incontro ai loro dolori.

Il cielo sopra Berlino è molto diverso da Paris,Texas, il film precedente. Le differenze si mostrano già a partire dalle premesse geografiche: uno rappresenta una sorta di addio a una terra che ha sempre affascinato il regista, l’altro è invece un ritorno, un riabbracciare la propria casa. La distanza fisica tra questi luoghi si riflette nei propositi artistici di Wenders: due racconti diversi per due mondi diversi. Ma ai tempi Paris,Texas è stato distribuito ovunque con grande successo, e ciò ha portato una certa aspettativa sul nuovo film del regista. Si voleva qualcosa di simile, che ricalcasse le orme del viaggio di Travis. Ciò non era nelle intenzioni del cineasta di Düsseldorf:

 

“I had a hard time deciding what to do next, except something very, very, very different.”

Le premesse narrative (l’avventura di questi due angeli tra le strade di Berlino) lasciano intendere l’attitudine poetica del film, che è stato effettivamente influenzato anche da poesie di Rainer Marie Rilke. Ma è anche vero che tutto il cinema di Wenders si presta bene a una chiave poetica. Il suo cinema forza una riflessione ulteriore sull’immagine, che diventa oggetto di analisi, qualcosa da indagare e su cui perdersi.

 

“Poetry is not something you can intend in a film, but it’s rather a beautiful find, a gift that you receive as a filmmaker.”

Il film regala a Wenders il premio come miglior regista al Festival di Cannes.

Il documentario, la musica e Ozu

 

Nella filmografia di Wim Wenders c’è spazio anche per i documentari. Il regista infatti ne gira fin dal 1980. A oggi il suo ultimo documentario è Anselm, presentato al Festival di Cannes 2023: una biografia sul pittore e scultore tedesco Anselm Kiefer.

Tornando indietro nel tempo, attraverso il documentario Wenders parla anche di musica, una delle sue più grandi passioni, che ricopre un ruolo fondamentale anche in quello che forse è il suo film più ambizioso, ovvero Fino alla fine del mondo (1991). Sono numerose le collaborazioni con vari artisti del settore come Nick Cave, Lou Reed, i Talking Heads, Patti Smith e i R.E.M. In Buena Vista Social Club (1999), Wenders intraprende un viaggio insieme a Ry Cooder verso Cuba per intervistare e vedere i concerti di un gruppo di musicisti cubani.

 

“I can see this world in many different ways, but the one constant thing I couldn’t imagine it without is music.”

 

È del 1985 Tokyo-ga, un documentario nato nella primavera del 1983. In questo video diario Wim Wenders mostra la Tokyo moderna paragonandola alla Tokyo rappresentata da uno dei più grandi maestri del cinema: Yasujirō Ozu. Il film è un tributo al regista giapponese che Wenders definisce come una delle sue più grandi ispirazioni. Quello che emerge è il ritratto di una persona di poche parole ma rispettata da chiunque lo abbia mai conosciuto.

Le immagini di Tokyo

 

Ma Tokyo-Ga è anche una riflessione sulle immagini, sul ricordo e sul rapporto tra cinema e realtà. La Tokyo di Wenders è una Tokyo rumorosa, caotica e piena di palazzi, piena di quella industrializzazione che Werner Herzog, come dice lui stesso in una sequenza del documentario, non potrebbe mai e poi mai rappresentare perché povera di quella intimità di cui ha bisogno il cinema. Un contributo, quello del collega e amico di Wenders, che offre uno spunto di riflessione, un contraltare a quella che invece è l’intenzione dello stesso Wim, cioè di filmare e raccontare quella confusione.

 

“In beginning was the word, in the end there’s only image.”

 

A Tokyo ritorna con Perfect Days, il film presentato a Cannes nel 2023, pellicola che conferma come Ozu rimanga ancora oggi nei pensieri del regista:

 

“We shot Perfect Days 60 years after Ozu made his last film, An Autumn Afternoon, in Tokyo. And it is not a coincidence that our hero’s name is Hirayama…”

Il sodalizio con Robby Müller

I due si incontrano dopo che Müller ha finito di occuparsi di Jonathan (1970) del regista Hans W. Geissendörfer. Lui e Wenders insieme girano più di quaranta film volti verso l’introspezione e la sperimentazione. I loro film hanno un impatto visivo notevole, ma non è la bellezza il loro scopo ultimo. Questa è solo una conseguenza della loro ricerca che ha come obiettivo catturare l’essenza di una scena, la sua atmosfera, la sua “poesia”.

I colori diventano una metafora per esprimere emotività, e infatti in film come Paris,Texas è indimenticabile il rosso del cappello di Travis o il rosa indossato da Nastassja Kinski, o ancora indimenticabili sono i colori ne L’amico americano, che esprimono quel senso di tensione e solitudine metropolitana presente nella pellicola. Soluzioni che ricordano i quadri del pittore David Hopper

 

Wim Wenders è uno di quei registi che ha sempre indagato il mezzo cinematografico, che ha riflettuto su di esso, su cosa significa fare cinema, cosa significa l’immagine cinematografica e quali sono i valori e le potenzialità di quest’ultima. È un regista impegnato che si preoccupa del futuro artistico della settima arte. Le sue apprensioni si mostrano nelle domande che pone ai vari registi nel documentario Chambre 666 (1982)

 

“Qual è il futuro del cinema?” 

“Il cinema è un linguaggio che andrà perduto, un’arte che sta per morire?”

Domande poste nel 1982 che ancora oggi trovano risposte incerte. Dal canto suo, Wim Wenders propone tuttora un suo cinema, e da produttore promuove anche nuove realtà come quella di Una sterminata domenica (2023) di Alain Parroni, opera prima di un giovane regista italiano. Quindi se il cinema è immerso in un mare di incognite, Wim Wenders rappresenta una delle poche certezze, pronto a far vivere l’arte cinematografica. La sua è una lotta iniziata con il nuovo cinema tedesco e che continua tutt’oggi.