Quante volte ci è capitato di andare al cinema e attendere, con impazienza, l’inizio della proiezione del film? Prima di lasciarci andare al flusso delle immagini, non coviamo tutti il desiderio di essere sorpresi da quanto ci apprestiamo a guardare? In verità, come affermava perentoriamente Tinto Brass:
“Lo sguardo dello spettatore è “posizionato”, “previsto” secondo orientamenti del senso. Non a caso c’è un tipo di sguardo che ha a che fare con il “genere” e con il “cinema d’autore”. Nel primo caso il “genere” caratterizza un sistema di regole discorsive convenzionali, in quello “d’autore” c’è una trasformazione delle regole.”
Lo sguardo e i codici narrativi
Sappiamo, infatti, che il codice narrativo del “genere” ha delle caratteristiche rigidamente codificate: deve prevedere un facile approccio, le storie e figure devono essere rassicuranti, le sotto-storie non devono contemplare al loro interno complessità psicologiche. Devono essere, infine presenti, indicatori di genere (il tipo d’inquadrature, l’accompagnamento musicale, la grafia dei titoli di testa, la voce fuori campo) e non può mancare il climax, il momento in cui, verso la fine del film, l’emozione dello spettatore dovrebbe raggiungere il punto culminante (i grandi balletti delle commedie musicali, lo scontro finale del western, la gag estrema della commedia, la grande emozione nel dramma psicologico).
Prendendo spunto dai codici presenti obbligatoriamente nei western, Werner Herzog annotava, sarcasticamente, che non è immaginabile che l’eroe dorma nel letto, infilato sotto una spessa trapunta. Deve riposarsi all’aperto, accanto al fuoco dell’accampamento, con la sua sella come cuscino.
Il posizionamento dello sguardo
A confermare la presenza di un codice inveterato, che regola le concatenazioni narrative dei film, lo schema al quale si atteneva Alfred Hitchcock; presentare una determinata situazione nel primo rullo, porre poi un personaggio positivo e metterlo al centro di un problema. L’obiettivo? Creare una “situazione molla” affinché il pubblico si chieda: ”Riuscirà a cavarsela?” A riguardo David Cronenberg affermò:
“Non ho mai provato la sensazione di Hitchcock di essere un burattinaio, di manipolare il pubblico. Egli sosteneva che di poterlo far saltare, ridere e piangere a comando e a lui tutto questo piaceva. Non è questo che mi interessa.”
A rincarare la dose, la constatazione che, il più delle volte, nel rispetto del cosiddetto “percorso di formazione”, registi e sceneggiatori, confezionano da anni, retoricamente, pellicole che mostrano la trasformazione del protagonista che, al termine della vicenda ha imparato qualcosa su se stesso e sul mondo. Queste considerazioni ci portano a concludere che, di fatto, chi è in sala, nel corso della proiezione del film, difficilmente potrà mollare gli ormeggi, perdersi e provare “finalmente” quella sensazione di sorpresa e di smarrimento.
Il capolavoro è irrespirabile
Sono lontani gli anni nei quali Jean Luc Godard o Alain Robe-Grillet rompevano i classici codici narrativi.
Ma al di là dei tentativi fatti da questo o quel regista, la verità è che, da anni, assistiamo a delle pellicole da un punto di vista stilistico abbastanza omologate. Per citare ancora una volta il grande Hitchcock, i film prodotti negli ultimi anni sono per lo più “fotografie di persone che parlano”. Ma c’è dell’altro.
Prendiamo, ad esempio, Rapito di Marco Bellocchio, regista tra i miei preferiti. Nel film tutto è prefetto: l’ambientazione, i costumi, la recitazione, la vicenda intriga, e non mancano scene da antologia come quella del Cristo che scende dalla croce. Eppure, come affermava Truffaut “I film respirano attraverso i loro difetti. Il capolavoro è irrespirabile.”
Stesso discorso per Il sol dell’avvenire. Sono cresciuto con le pellicole di Nanni Moretti e lo adoro da sempre. Eppure nel suo film Moretti, al suo cinema da sempre autoreferenziale, invece di spiazzarci, ripropone ancora una volta le sue ossessioni di sempre: le scarpe, la violenza nei film…
Nel panorama italico, e mi riferisco, all’ultimo anno, forse l’unico che ha mischiato davvero le carte e proposto uno “sguardo” diverso, è Gabriele Salvatores con il suo Il ritorno di Casanova. Come è noto, il regista napoletano, propone un “film nel film” e narra le vicende di Leo Bernardi (un magnetico Toni Servillo), un regista, di mezz’età, in crisi che ha girato un film su Casanova, ispirato al romanzo di Arthur Schnitzler. Un film intimo e personale, che evoca mille riflessioni non solo sull’inesorabile avanzare dell’età e sulla (vana?) ricerca della felicità, ma anche e soprattutto sul cinema e sui rapporti tra finzione e realtà.
Cosa aspettarci dalla prossima Mostra di Venezia?
La speranza è quella che nella prossima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia lo spettatore, come scrive Roland Barthes, possa “uscire dal cinema un po’ intorpidito, goffo, infreddolito, come un gatto addormentato, da uno stato d’ipnosi.” E soprattutto, che i registi ci restituiscano, finalmente, una libertà e una verginità dello sguardo.
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