Presentato in una nuova veste curata dalla Cinématèque Suisse e realizzata presso il laboratorio L’immagine ritrovata di Bologna, al 76° Festival di Locarno la visione de La Paloma si svolge a mezzanotte sotto le stelle della pittoresca Piazza Grande e mai cornice notturna potrebbe essere più prestante per un film che scava in desideri torbidi, riverbera delle luci spettrali del sogno e dell’allucinazione, distorce per incanto le coordinate del tempo.
Introdotto sul palcoscenico da Renato Berta, che ne curò la fotografia, La Paloma girato nel 1974 da Daniel Schmid, regista svizzero di lingua tedesca scomparso nel 2006, fu il suo secondo lungometraggio per il grande schermo, la sua opera più rappresentativa, quella che cambiò le sorti del cinema elvetico con sua vena antinaturalistica, cucita sull’iconicità da femme fatale di Ingrid Caven, ex moglie e musa di R. W. Fassbinder.
Sinossi
1952. O forse i decenni precedenti. Viola, una cantante di cabaret già prossima alla morte per la tisi, è l’oggetto del desiderio del ricco e goffo conte Isidor Palewski, non ricambiato. Ne nasce una relazione tormentata, che diventa triangolo quando Viola si innamora dell’amico Raoul, con complicazioni e impossibilità di coronare questo amore. La donna muore e, come da suo testamento, dopo tre anni Isidor convoca Raoul per leggere insieme le sue volontà, scoprendo disposizioni estreme al cimitero dove è sepolta. Finale a sorpresa.
Un incipit di potenza struggente
Si apre con titoli di testa rosso porpora di grafia svolazzante, su uno stilizzato sfondo marittimo al tramonto, tra gli arbusti mediterranei che inducono a prefigurarsi un intreccio soap in qualche esotica isola assolata, quando una nuova scritta capeggia per sviare le premesse: “once upon a time…”. Un incipit quindi fiabesco, la premessa di una novella della buonanotte per bambini, di un racconto formativo di innocenza profanata e paure esorcizzate, ma non vi è nulla di candido, fanciullesco e prettamente educativo nella storia narrata da La Paloma, che conserva del genere della fiaba solo l’aura temporale del mito, l’inafferrabilità nelle nebbie di un’aristocratica irrealtà, dove uomini e donne sono impermeabili alle ristrettezze sentimentali della morale comune.
Ed eccoci quindi, in contraltare con le prime immagini, in un cabaret ammantato come nel musical omonimo di Bob Fosse, dove Daniel Schmid sferza il suo squisito armamentario di maestro della ripresa onirica e barocca, del manipolatore raffinatissimo dell’immagine densa e ammiccante tra gli echi di Erich von Stroheim e Josef von Sternberg, con l’ausilio della fotografia di preziosi e languidi cromatismi e soffusi bagliori di Renato Berta.
Quindi un piano sequenza vorticoso e sensuale sui tavoli da gioco, coppe di champagne, personaggi che sono maschere o manichini, grotteschi e fantasmatici con il loro cipiglio ombroso, l’allure da Belle Époque, l’alterigia nobiliare di chi si fa corrompere da quel lusso in penombra; poi primi piani e sguardi in macchina penetranti e complici, come quello di un enigmatico figuro abbigliato come un romano deviato del Fellini Satyricon, mefistofelico demiurgo che inoltrerà noi ignari spettatori in un universo estetizzante, voluttuoso e ambiguo, traghettatore della Psiche tra veglia e immaginazione.
All’entrata in scena della protagonista, la chanteuse Viola, il film può avvitarsi sulla sua femme fatale, la messinscena può scivolare nei suoi stilemi di esasperato melodramma, la regia librarsi in una scrittura intrepida e non canonica, accordandosi ironiche incursioni nel patetico e nel Kitsch (il canto di Viola e Isidor tra le montagne) e concessioni satiriche di Gran Guignol.
Specchi e simulacri: filmare oltre la soglia
La Paloma è un film di immagini artefatte, in cui svetta il simulacro del femminino eretto da Ingrid Caven, forse l’unica attrice in grado di allinearsi al divismo di Marlene Dietrich, infondendo però sulla sua fisicità esile e inebriante spasimi struggenti di amore, sussurri di autodistruzione, tragica compostezza, come sul ricamo in versi dannunziani della Traviata verdiana (allusa come d’obbligo da Schmid nel camerino di Viola attraverso la locandina de La signora delle camelie di Carmelo Gallone, che come l’omonimo romanzo di base di Alexandre Dumas figlio si ispira all’opera lirica)
Ma è anche un’opera che ritratta ciò che compone, che amalgama passioni nefaste (ossessione, necrofilia, estasi dei sensi, suicidio) ribadendone l’inattualità nel nostro tempo con un colpo di scena conclusivo, in una postilla referenziale che è un gioco di prestigio, il trionfo dell’illusione e un elogio dell’ineluttabilità del sognare nella vita stessa (una chiusura di cui forse si ricorderà David Lynch per il finale di Mullholland Drive). In questa finale apertura alla realtà dopo una straziante catabasi (con tanto di discesa cimiteriale) tra Eros e Thantos, Schmid elude il rischio di simbolismo esasperato, di decadentismo sterile e controbilancia anche quella vena artificiosa impressa nella recitazione di stampo alienante e brechtiano.
Tutte le soluzioni registiche concorrono a plasmare un fascino imperituro de La Paloma, pellicola che avvolge lo spettatore in spirali inafferrabili del tempo, con una vicenda in cui gli anni Cinquanta (citati con la morte di Evita Perón) si contaminano con la fine dell’Ottocento o con gli anni Trenta del Novecento, in una sospensione della credibilità che richiede e ottiene la felice complicità del pubblico. E dietro la sofisticatezza figurativa di particolari curatissimi che miscela con destrezza alchemica l’immaginario aureo di epoche rimpiante, si impone la dimensione espressiva della fantasticheria e del desiderio oltre l’impossibile che Schmid fa coincidere con il linguaggio stesso del cinema, la presa emotiva per un racconto audace di escapismo nel culto del bello, nel proibito più vertiginoso, nell’assurdo più sensuale e dirompente.