Jackie Brown incrocia I soliti ignoti sotto il cielo di Berlino. Così, in maniera scherzosamente riduttiva, si potrebbe avvicinare lo spettatore alla visione di The Woddafucka Thing di Gianluca Vallero. Se non fosse che il regista, autore indipendente di origini piemontesi e di stanza nella capitale tedesca, è così indie nelle idee che sarebbe azzardato trovare somiglianze.
Il suo film, selezionato al Festival di Brema, ce li ha davvero, comunque, i soliti ignoti. Più per necessità che per scelta. Si tratta di Gino (Carlo Loiudice), italiano a Berlino, e del fratellastro Ninja (Marc Philipps), che conducono un corso di karate in una scalcagnata palestra. Per fronteggiare l’aumento inatteso degli affitti, stabilito da uno dei tanti boss con le mani sulla città, approcciano un’impresa criminale, su commissione di un altro malavitoso. Sulla loro strada c’è Sweety (Dela Dabulamanzi, la Jackie Brown di cui sopra), dj a tempo perso e scagnozza per forza: a sua volta, infatti, è impelagata in loschi affari per sdebitarsi con il padrino di turno.
Heist movie? Macché. I preparativi del colpo sono gustosi, ma a colpire è la sceneggiatura brillante, fatta di dialoghi corrosivi e forte di una base sociale proletaria e multietnica. Poveri diavoli nella Berlino criminale (e da ridere). Ne abbiamo parlato col regista Gianluca Vallero.
Il regista Gianluca Vallero
The Woddafucka Thing: il trailer
Il film è prodotto da Finimondo Productions e coprodotto da Label Noir con SHOOT’N’POST.
Chi è Gianluca Vallero
Gianluca ha lavorato come regista e speaker per la TV e il cinema. Ha pubblicato articoli su quotidiani e trasmesso contributi culturali e servizi in emittenti pubbliche tedesche. Nel 2003 ha lavorato come assistente alla regia del regista italiano Gianni Amelio nella produzione cinematografica del film Le chiavi di casa. Con la sua Finimondo Productions ha girato diversi cortometraggi premiati e un documentario completo. The Woddafucka Thing è il suo primo lungometraggio.
The Woddafucka Thing: l’intervista a Gianluca Vallero
MA CHE COLPO ABBIAMO NOI
Immaginiamo di dover presentare The Woddafucka Thing allo spettatore che non l’abbia visto. Scomodando le categorie dei generi, che spesso sono approssimative, mentre vedevo il film pensavo se ne potesse parlare come di un heist movie. So, però, che ci tieni a presentarlo soprattutto come una commedia, e d’altro canto le linee di sceneggiatura brillanti, nonché l’attenzione ai “tipi” umani, legittima ampiamente questa priorità. Ma per te, perché è così importante presentare il film come una commedia, piuttosto che come un caper movie basato sul colpo criminale?
Perché, come hai visto, il colpo, questo grande colpo, alla fine non lo si mostra affatto. S’intuisce qualcosa, ma non è il centro del film. Il gran colpo – questa cacchio di cosa, the woddafucka thing – era solo un pretesto. Piuttosto, mi sono molto ispirato a temi della commedia, ma non quella ridanciana: la commedia politicamente scorretta, a volte provocatoria, persino aspra. Non a caso abbiamo giocato molto con gli stereotipi, fino a rasentare l’humour nero. La vita dei protagonisti, veri e propri “picari” metropolitani, è tutt’altro che facile, ma con l’ausilio della comicità, con questa verve, con questo sapersi destreggiare tra le complicazioni della vita, sanno dare al film una certa leggerezza.
Una leggerezza credibile, ad ogni modo. Sembra che tu abbia dimestichezza con questo tipo di personaggi, e forse per questo ti predisponi a conquistare anche lo spettatore.
Nei miei film, di solito, parlo di personaggi disadattati, sradicati dalla propria cultura, dal proprio paese, perché sono io il primo straniero ad averne viste e vissute tante. Conoscendo queste difficoltà sulla mia pelle, in particolare la necessità di inserirsi in una cultura e in una situazione sociale diverse da quella di provenienza, trovo che sia molto importante dare questo messaggio: che non tutto è un dramma, che è importante saper affrontare la vita con leggerezza, se si vuole, anche con spregiudicatezza.
Ma ci sono vari tipi di commedia. La tua, per esempio, ha una forte base sociale. I protagonisti hanno bisogno di soldi e vengono sfruttati da qualcuno: questo genera sia l’intreccio narrativo dal punto di vista più strettamente cinematografico, sia una riflessione sociale dal punto di vista del contenuto. Riguardo quest’ultima, a cosa volevi puntare il tuo sguardo, in particolare?
Ho definito “picari” i protagonisti perché sono tutti personaggi di provenienza diversa, di estrazione sociale bassa. Sono persone che emigrano, arrivano in un posto e devono trovare un lavoro, superando sia le difficoltà culturali che amministrative presenti in Germania. Sono il mio specchio: ho vissuto anche io questa esperienza. Diversamente dalla mia generazione di immigrati, tuttavia, sono più numerosi e meno interessati ad inserirsi nella cultura tedesca. Non hanno quasi più bisogno e non hanno neanche voglia di imparare la lingua: se la cavano con un po’ di inglese maccheronico. È una popolazione fluttuante, e molte sono vittime predestinate.
LE MANI SULLA CITTÀ DI BERLINO
La ricerca di una casa, poi, complica le cose. In The Woddafucka Thing il discorso sugli immobili è un sottotesto significativo: Gino e Ninja non riescono a pagare l’affitto, Sweety convive, ma dovrà presto trovare un’altra sistemazione.
In Germania e soprattutto a Berlino, dopo la caduta del muro, c’è stato un assalto all’immobile. La città ha dovuto svendere parte del territorio comunale e grandi società immobiliari si sono accaparrate interi quartieri. Hanno preso, ristrutturato, ricostruito immobili, e quando ne hai così tanti puoi fare il bello e cattivo tempo. Sono le mani sulla città di questo tempo. Non per niente, ho citato il film di Francesco Rosi in un’inquadratura precisa, ossia quando i due poveracci vanno a protestare per l’aumento dell’affitto e dietro i due agenti immobiliari si vede il poster tedesco del film. La mafia di allora è la mafia di oggi, trasportata in Germania: alla base c’è la stessa volontà di fare affari.
LA CLASSE OPERAIA VA IN PARADISO
Una buona ragione per guardare The Woddafucka Thing è che con questi personaggi, al netto dei loro difetti, si trova una prevedibile sintonia. Da dove nasce questo senso di umanità profonda, nonostante le forzature della commedia?
Io sono stato reporter radiofonico per tanti anni e mi guadagnavo da vivere andando per strada giorno e notte a cercare dei temi da offrire alle redazioni, sperando di venderli per poi fare il servizio radiofonico. L’ho fatto per tanti anni, quindi ho vissuto la strada, ho visto e incontrato tutti questi tipi che racconto. Li ho visti tutti penare, soffrire, non riuscire a tornare a casa. Erano disperati, non avevano soldi; a volte si dovevano prostituire. Sono storie di un proletariato urbano che arriva da fuori: italiani – tanti, come sempre – ma anche turchi, arabi, slavi. Impreparati, in ogni caso.
Mi piace collegare queste storie col movimento perpetuo della città, perché Berlino continua a muoversi, ad andare avanti. È come un grande cantiere che ha delle fauci enormi e tutti quelli che arrivano se li inghiotte. Qualcuno riesce a scappare, però tanti rimangono lì e sopravvivono, vivacchiano. Altri ancora mollano e tornano in patria con la coda tra le gambe.
Il potenziale del dramma c’era, allora.
Assolutamente. La trama poteva andare nella direzione del dramma. Io non sono una persona che ride molto facilmente, forse per questo avevo proprio bisogno di questa energia, della vis comica. Per me è come caricare le batterie, è come vedere qualcosa di buono nella vita, pur rimanendo molto critici nei confronti della società.
È una “Berlino dei margini” quella che racconti, oppure il fluttuare di questi emarginati coincide con ciò che, principalmente, la città è oggi nella sua anima più profonda?
Non sono gli emarginati dei grandi cineasti indiani, come Satyajit Ray, né quelli dei bellissimi film iraniani. È un altro tipo di emarginazione, diciamo, “piccolo borghese”: è un’emarginazione tipicamente europea. Si tratta di persone che si arrangiano in mille modi per sbarcare il lunario. Questa è una caratteristica di Berlino, anche se ci sono tanti giovani imprenditori e menti brillanti – italiani, francesi, spagnoli – che con le loro qualità incredibili riescono a sfondare.
Tuttavia, come ti dicevo, a me non interessa l’alta borghesia. Io trovo qualcosa di verace e sincero nel proletariato. Per me ha qualcosa di ancestrale: i sentimenti e le passioni emergono con più chiarezza. È la sopravvivenza che li fa uscire, aguzzando la fantasia e l’inventiva. So che esiste un tipo di dramma “medio borghese”, ma personalmente ritrovo il cinema molto di più in questi proletari, che mi sanno toccare l’anima.
BERLINO CRIMINALE (CHE NON C’È)
A metà tra critica sociale e coloritura cinematografica, c’è lo scenario della città di Berlino. Da un lato, c’è l’analisi sociale e storica che ti porta a definirla una città che inghiotte gli impreparati. Dall’altro c’è un sottobosco criminale che sembra, semmai, una parodia del gangster movie: piccoli boss, scagnozzi, bande rivali. Quanto ti sei sbizzarrito nel ritratto della Berlino criminale, per rendere saporito il racconto?
Un bel po’. Ho usato molta ironia, scimmiottando quel tipo di serie cinematografica a sfondo criminale che si sta facendo un po’ dappertutto. Anche su Berlino ci sono state serie di questo tipo, ma francamente, rispetto ad altre grandi città, se vieni a Berlino ti sembra il paese delle favole. La criminalità non è per nulla come quella di certe metropoli europee o sudamericane. Negli ultimi anni si è cercato di vendere un’immagine di Berlino esagerata, ridicola. Ci sono bande, clan di turchi e arabi, criminalità di strada – ma finisce lì.
The Woddafucka Thing, un’innocua scena di minaccia a mano armata. Copyright Finimondo
In altre parole, l’effetto Gomorra ha investito anche Berlino, e in The Woddafucka Thing l’hai preso un po’ in giro.
Sì. Ho canzonato queste serie in cui si fanno vedere cose che a Berlino non sono mai successe. Sono pompature che prendono ad esempio Gomorra, o il mito di Rio de Janeiro e Buenos Aires, o le periferie di Parigi. Berlino mi sembra semplicemente una città che non ha nessun collegamento con questo tipo di criminalità megalomane. I criminali di The Woddafucka Thing sono un po’ criminali de noantri.
I SOLITI IMMIGRATI
Se la Berlino dei gangster è deliberatamente colorita, quella multietnica di cui mi parlavi prima, invece, corrisponde di fatto all’immagine della città. Nel film, per il fatto di essere di colore, Sweety è spesso indicata come rifugiata, o è vittima di pregiudizi, a cui mostra di stare con ironia, specie quando non sono maliziosi. Per esempio, con Gino che cerca di insegnarle a mangiare spaghetti lei replica che da dove viene, in effetti, era abituata a mangiare “erba elefante” (sic!). E gli stessi italiani sono mangiapasta che fuggono dalla mafia.
Gino dice che è fuggito dall’Italia per trovare un lavoro onesto: è chiaro il paradosso scherzoso della sua situazione, visto che finisce coinvolto in un colpo criminale. Sono tanti i giovani europei, e non solo, che cercano miglior sorte nella capitale tedesca. La multietnicità è effettivamente una caratteristica di Berlino, al pari di altre capitali europee. Ci sono stati, ci sono e ci saranno sempre degli stress a livello razziale a Berlino. Si vive tutti insieme, non ci si meraviglia più di niente e di nessuno. Puoi avere tutti i colori del mondo vestirti come vuoi, essere come sei e come vuoi. Nessuno si stupisce più. È bellissimo questo senso di libertà che ti dà la città.
CACCIA AL TESORO SOTTO LA LINGUA
Eppure alcuni personaggi si insultano pesantemente: affiora un linguaggio tarantiniano, scorretto e divertito.
Sì, perché, sanno che sono allo stesso livello. Possono dirsi quelle cose perché consapevoli di non offendersi a morte. I loro non sono insulti, perché non offendono l’anima. Volevo sfatare questo mito secondo cui non si possono più dire certe cose. La lingua sta cambiando tantissimo in Germania, ad esempio, non puoi più parlare solo al maschile, plurale, generale, bensì devi sempre usare un doppio, maschile, femminile, neutro, per tutti i generi. Tra persone dello stesso tipo si possono però usare ancora certi modi di comunicare. È il linguaggio della strada, e non ha nulla a che fare con offese razziste. Il problema non è la parola, ma l’intenzione, e nel linguaggio della strada, tra simili, si capisce che certe cose non si dicono per fare del male.
Non è scontato, comunque, che lo spettatore percepisca quest’uso del linguaggio, di “offese non offensive”. Può apparire scorrettezza e basta. Ne avete discusso sul set?
Ci abbiamo riflettuto molto, soprattutto con Dela (Dela Dabulamanzi, l’attrice protagonista che interpreta Sweety, n.d.R.). In molte situazioni ci siamo chiesti se fosse il caso o meno di dire certe cose. Come ha detto Dela in un’intervista, ad ogni modo, il razzismo si combatte anche così, con un sorriso sulle labbra. Chi è forte e si sente sicuro non ribatte con la violenza, ma la smonta con una battuta o col sorriso sulle labbra. Questo era uno dei messaggi che volevamo dare: c’è troppa violenza, c’è troppa tensione, diamoci una calmata. Questo è un altro modo, secondo me, più innovativo di contrastare il razzismo, anziché farlo a muso duro, come spesso avviene qui. In Germania molte volte o sei bianco o sei nero, o sei di su o di giù, del Nord o del Sud.
The Woddafucka Thing, un dialogo a muso duro. Copyright Finimondo
Sono delle linee di visione molto nette, troppo marcate. Penso che i mezzi toni della commedia, così come l’ho immaginata, possano anche aiutare un po’ a distendere, a mettere insieme le persone, semplicemente, a farle discorrere. Perché quando ti affronti a muso duro, il dialogo diventa difficile.
SAPER LEGGERE E SAPER GUARDARE
Proprio in un dialogo a muso duro, e cioè dove meno ce lo si aspetterebbe, il boss che sfrutta e ricatta Sweety le cita il Faust: “Io sono parte di quella forza che eternamente vuole il Male ed eternamente opera il Bene”. E resta sorpreso dal fatto che Sweety riconosca la citazione da Goethe: voleva farle pesare una cultura superiore, ma la donna mostra di avere il suo “dignitoso” livello culturale, in barba al pregiudizio. Poco oltre, inquadri un libro sul tavolino da lavoro di Ninja: l’Odissea di Omero. Perché queste citazioni di alta letteratura nella bassa società?
Quanto a Goethe, c’è la supponenza del boss che pensa di avere davanti a sé una poveraccia. Da loro dialoghi, si capisce che è stato il malavitoso a farla arrivare, o a rimanere, in Germania, e per questo Sweety deve pagare il suo pegno: deve lavorare per lui ogni volta che viene chiamata. Se le persone non le vedi, non le conosci, è facile giudicarle come pezzenti, ignoranti o criminali. Citare Omero era quasi un dovere. La storia di queste persone è una piccola odissea. C’è una scena in cui la guardia si fa dare il cambio da Ninja e fa un riferimento a una famiglia di migranti che è appena arrivata, dicendo che hanno attraversato deserti e mari, ma stanno bene.
The Woddafucka Thing, Sweety in auto a colloquio col boss. Copyright Finimondo
Questa guardia, che è solo una comparsa, esemplifica la cura dei dettagli di The Woddafucka Thing. Nella scena che ho citato poc’anzi, aggiunge anche qualcos’altro: come un senso di pericolo lì, in questo mondo in cui è così arduo sopravvivere.
Mi fa piacere che tu l’abbia notato, perché questa battuta l’ho voluta mettere apposta. La guardia aggiunge che c’è qualcosa là fuori nel buio; è qualcosa che non si vede, però si sente. C’è nell’aria, come un senso di pericolo. Se qualcuno riuscisse a vedere The Woddafucka Thing al cinema, si renderebbe conto del fatto che questo signore è cieco, nel senso che ha un occhio di vetro. Cieco, dunque, come si diceva di Omero.
Ciononostante, riesce a capire che qualcosa non funziona là fuori: guarda oltre. Le persone arrivano attraversando mari, monti e deserti per arrivare in una terra dove pensano di riuscire a farcela. Meritano, dunque, di essere guardate nel modo giusto, nella propria dignità. Bisogna saper leggere le loro vite. Ognuno di loro ha una cultura, che forse noi non capiamo. Da questa incomprensione nascono pregiudizi. Odissea è tutto questo girovagare tra culture, incappare in pericoli, fuggirne, per poi ritornare in una patria, in una terra in cui ritrovare la possibilità di vivere e andare avanti.
ODISSEE CONTEMPORANEE
Non ci sono buoni o cattivi, allora; piuttosto, girovaghi in lotta.
I protagonisti di questa odissea metropolitana sono dei buoni che alla fine commettono un crimine che non è nemmeno un vero crimine. Il loro piano consiste nel rubare dei soldi che un’associazione umanitaria avrebbe dovuto dare ai bisognosi, ma che invece usa per far cassa in nero. E tra l’altro, quello di Gino e Ninja è un progetto “da buoni”: non vogliono far altro che crearsi un’esistenza e dare un po’ di piacere ai bambini che vanno a fare karate nella loro palestra scalcagnata. Hanno un animo buono, anche se possono commettere delle malefatte. Che, dunque, possiamo perdonare.
The Woddafucka Thing, Gino e Ninja seduti su una panca nella palestra dove fanno karate. Copyright Finimondo
BIANCO, NERO E BLACK MUSIC
A proposito di cultura: Sweety porta la sua cultura anche in radio, visto che fa la DJ e considerando le sue scelte musicali. Come s’intona la sua voce al film? E come viene completata dalla musica la progettazione del suono?
Venendo dalla radio, amo metterla sempre in mezzo. Con la radio, la voce di Sweety arriva dappertutto. La si sente spesso nel film, anche se all’inizio Gino non la riconosce, perché la voce di Sweety è registrata per poi essere mandata in onda la settimana successiva. In merito alla musica, sono stato inizialmente indeciso. Sono passato dal jazz etiopico fino al trip hop. Quest’ultimo, alla fine, è risultato il genere che meglio potesse rappresentare sia lo spirito di questi personaggi, sia quello della città. Certo, Berlino è legato alla techno e alla musica house. Ma non era questo il mio ritmo, né quello dei protagonisti. Il trip hop, invece, assecondava il montaggio che avevo in mente, così come il bianco e nero.
The Woddafucka Thing, Sweety fa la dj. Copyright Finimondo
Ecco, dimmi proprio del bianco e nero: perché questa scelta?
Il film è stato scritto sin da subito in bianco e nero, tranne un’immagine colorata. Il bianco e nero corrisponde al fatto che Berlino è così: in bianco e nero, fatta di estremi. Tra l’altro, giro spesso i film nella parte est della città e secondo me la grafica e l’architettura della DDR sono da bianco e nero. Il colore sarebbe stato un elemento di disturbo. La luce a volte forte del Nord e questi contrasti nel grigio sono affascinanti. Più di tutto, volevo una fotografia molto concentrata sui personaggi e sulla grafica della città, quindi, avevo bisogno di escludere ogni cosa che potesse disturbare questo proposito.
GUAI A DIRE RESILIENZA
C’è una parola che oggi va di moda: resilienza. E qualcuno potrebbe dire che nelle traversie di questi picari, come ami chiamarli, ce ne sia tanta. Ma c’è anche qualcosa del film di formazione, inteso come l’imparare a superare le diffidenze, a sapersi guardare, semplicemente a saper vivere. Siamo partiti dalla definizione di commedia: in chiusura, te la sentiresti di aggiungere anche questa dicitura di racconto di formazione?
La parola resilienza per me attiva qualcosa di passivo e negativo. Non mi piace una persona resiliente: sembra che stia lì ad aspettare le sferzate del destino per adattarsi. I miei personaggi sono resistenti. Vanno all’attacco, reagiscono. Agiscono contro, anziché limitarsi a sopportare. Fanno un percorso formativo, è vero, ma in qualche modo ce l’hanno già dentro. Loro cercano semplicemente di recuperare ciò che è loro, quella situazione iniziale che era venuta a sfuggire non per causa loro. Capiscono che devono lottare: questa è la loro formazione.
Per concludere, questo è il messaggio del film. Che resta, ovviamente, da vedere e gustare in tutta la sua bellezza e umanità.
Direi di sì. Per avere quel poco che hai, non devi essere resiliente, ma devi guadagnartelo, devi andare avanti. Hai qualcosa: difendila. E fallo con dignità, con grinta. Questo è l’approccio che bisognerebbe avere verso la vita. I giovani di Berlino lo devono fare tutti i giorni: lottare continuamente. Non solo per sé, ma anche per gli altri. Non solo a Berlino, ma anche in Italia, in Europa, nel mondo. La vita è contrattaccare.