‘Quando’, la memoria del tempo e il risveglio necessario
La capacità di raccontare una lunga porzione della nostra storia del Novecento attraverso poche essenziali suggestioni celate nella memoria del protagonista
La pellicola diretta da Walter Veltroni, tratta dal suo libro omonimo, con un espediente narrativo ripercorre alcuni dei cambiamenti intercorsi nella nostra società negli ultimi 30 anni, anzi 31. Un racconto con il tratto della commedia che, a una leggerezza insita nel genere, unisce sapientemente la profondità dell’analisi disincantata di un mondo apparentemente cambiato ma sempre imperituro nella capacità delle relazioni umane di aggiustare le cose. Proprio come accade a Giovanni, il protagonista della storia. Quando, prodotto dalla Luniere & Co, è presente nella sezione Anteprime Internazionali del Bif&st2023.
Quando, trama e dintorni
Nell’estate del 1984, a Roma, a San Giovanni, durante i funerali di Enrico Berlinguer, succede l’inaspettato che cambia per sempre il corso delle vite di tre giovani amici. Il diciottenne Giovanni, convinto iscritto al Partito Comunista, è in mezzo alla folla affranta e immensa. Con lui Flavia, la compagna di liceo e di vita. All’improvviso, nella calca, una delle aste di legno, a sostegno delle tante bandiere rosse presenti, cade colpendolo violentemente al capo. È l’inizio di un lungo periodo di coma della durata di 31 anni. Al miracoloso risveglio troverà SuorGiulia, il suo angelo custode, Flavia sposata con Tommaso, il suo miglior amico, e un mondo profondamente cambiato in superficie ma sempre accattivante nella bellezza delle relazioni interpersonali.
Nascere non basta. È per rinascere che siamo nati. Ogni giorno.
Pablo Neruda
La scomparsa della realtà aumentata
Il confronto con la contemporaneità, frutto di una sceneggiatura, scritta dallo stesso Veltroni con Doriana Leondeff e Simone Lenzi, dominata dal garbo e dall’essenzialità, percorre la strada ideologica senza rinunciare alla corsia dedicata al cammino più intimo, quello legato alla dimensione degli affetti. Una convergenza parallela che nidifica fino a determinare l’evoluzione dell’intero racconto. Diversamente da pellicole con escamotage simili, Good Bye, Lenin! di Wolfang Becker rientra senz’altro nel novero, l’impatto con il mondo nuovo del dopo coma è avvolto in una drammaticità spesso prontamente stemperata dall’ironia del protagonista. A volte addirittura sovrastata. Un effetto che, paradossalmente, muovendosi in un ambito già di per sé artificioso nella sua credibilità, compresa la figura atipica di Suor Giulia, accresce l’empatia dell’intera narrazione. Ne risulta un appello metaforico alla necessità di un risveglio che coinvolga un po’ tutti. Senza rinunciare alla propria identità e al coraggio di ingaggiarsi per il bene comune.
Il profilmico, interpreti e macchina da presa
Quandoè un film che parla di qualcosa che appartiene alla nostra storia. Rappresentandola in un’altra realtà che a tratti appare come un simulacro della quotidianità, a tratti ci risulta più familiare, a tratti è un contesto utile a sostenere l’edificio della memoria e del pensiero dell’autore. Quest’allestimento di finzione, con numerosi input che giocano con lo spettatore manipolandone la percezione del vero e del verosimile, risulta efficace grazie al buon amalgama degli interpreti e ai movimenti della macchina da presa elaborati per il contesto. Quest’ultima si presenta con un’attitudine lineare e molto classica che lascia ampio spazio ai dialoghi equilibrando totali, campi medi e primi piani. Una struttura di ripresa nella quale Neri Marcorè, Giovanni, è perfettamente a suo agio confermando la propria versatilità. Bravi anche gli altri interpreti, in particolare Olivia Corsini, nei panni di Flavia, e Stefano Fresi, autore di un esilarante cammeo.
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