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Ritratto di Daniele Vicari

Il lavoro di Vicari spazia dal documentario alla finzione, dalla sceneggiatura dei suoi film, e ad altri generi di scrittura. Senza mai perdere di vista l’impegno sociale e l’adesione psicologica ai personaggi

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Ritratto di Daniele Vicari

Pensando a Daniele Vicari affiorano subito le immagini potenti, e poetiche, dei suoi film. Dal cappottino rosso di Isabella Ragonese sul marciapiede straniante del metrò (Sole, cuore, amore), alle testimonianze di chi ha viaggiato nel brulichio della Vlora (La nave dolce). L’indolenza strafottente di Matteo Martari (L’Alligatore), una serie tv che si discosta dallo stile di Vicari, ma non per questo meno riuscita.

Il sorriso di Fabrizio Gifuni, quando nel ruolo di Pippo Fava osserva i suoi redattori, i carusi, e quando si tuffa in acqua con loro (Prima che la notte), o quello perso di Elio Germano,  giornalista curioso, ferito insieme ai ragazzi della Diaz. Ultima, ma non ultima, la figura di Orlando (Michele Placido), i suoi silenzi, la parlata dialettale che stride con il francese della nipote, e delle persone gentili, ma fredde, nella città straniera.

Daniele Vicari la rappresentazione dello straniero

La condizione dello straniero, e lo spaesamento, ricorre spesso nelle narrazioni e nei documentari di Vicari. Fin da Il passato è una terra straniera. Allora, una distanza tutta psicologica, ma il regista tratta con la stessa partecipazione l’intollerabile sospensione dei diritti, che ci rende in diversi modi stranieri.

In questo senso, ‘stranieri’ sono i personaggi delle sue narrazioni, le persone dei documentari, quelle del libro Emanuele nella battaglia (il dettagliatissimo racconto su Emanuele Morganti, ucciso davanti alla discoteca di Alatri nel 2017). Sono stranieri i giovani picchiati selvaggiamente a Genova. “La rabbia delle persone che erano lì dentro era anche la mia rabbia, la loro frustrazione era anche la mia”.

Ritratto di Daniele Vicari

Elio Germano in ‘Diaz’: foto tratta dal sito di Filmiatalia

Daniele Vicari La soggettività nel reale

Diaz (2012) è un film coraggiosissimo, ma non sarebbe stato lo stesso senza la condivisione della rabbia, della frustrazione, del senso d’impotenza di fronte all’improvvisa violenza gratuita. Perché se persone e personaggi appaiono stranieri nella vita, non lo sono certo per lui. La chiamano empatia, ma noi preferiamo il termine ‘compassione’, le cui corde, per sfiorarle, hanno bisogno di essere conosciute.

È necessario conoscere un pochino il mondo o quantomeno se stessi per raccontare una storia’. Così afferma Vicari nel suo piccolo saggio Il cinema, l’immortale, a proposito di cosa si vuole trasmettere agli studenti delle scuole di cinema (per contribuire a renderli esseri pensanti, possibilmente).

É proprio la conoscenza del mondo e di se stesso che noi apprezziamo nei suoi film, e l’integrazione tra queste due forme di consapevolezza. Lo sguardo sulla realtà, infatti, è testimoniato dai contenuti sociali anche nelle storie di finzione, mentre gli spunti personali arricchiscono di significato i documentari.

Per Il mio Paese (2006), ad esempio, Daniele Vicari ha sostituto all’idea iniziale di un attore come Mastandrea, che facesse da filtro, la propria voce narrante, per entrare in prima persona nella materia trattata. Più di un’inchiesta, più di un reportage: un documentario, genere di cui rivendica tutto il valore, tutte le potenzialità.

Il mio paese è la ricostruzione dell’Italia industriale dal Sud al Nord, dalla Sicilia al Veneto, ripercorrendo al contrario il viaggio di Joris Ivens del 1960, reso ne L’Italia non è un paese povero. Cosa è cambiato quasi cinquant’anni dopo? Si può condividere lo stesso ottimismo nei confronti del futuro lavorativo degli Italiani?

Gli accenni biografici che ci piacciono tanto

Tra i paesaggi, le strade, le fabbriche, i volti degli intervistati, a un certo punto compare la figura del padre. Mio padre sono io. Mio padre è un pezzo fondamentale della mia vita, e io sono un pezzo di questa Italia, perché mio padre è un pezzo di questa Italia. (Dal libro: Il mio paese).

Accenna spesso anche alla madre, Gabriella. La ritroviamo nel libro Emanuele nella battaglia: lei e il bar-alimentari-tabaccheria-giornali eccetera che gestisce a Collegiove.

Due pagine intense sono dedicate alla riunione degli uomini, lì, al bar, intorno al camino: il padre di Emanuele che piange davanti al fuoco, il padre di Vicari, il nipote dodicenne che ascolta le storie come fossero la trama di una serie fantasy su Netflix, e lo stesso regista-scrittore in un momento di rinnovata appartenenza.

Si chiama Gabriella l’unico riferimento affettivo di Orlando: che, guarda caso, anche lei gestisce il bar del paese.

Orlando poi: lo stesso nome, la stessa provenienza, del padre di Vicari. Ma quel vagare di Michele Placido nel centro di Bruxelles non è forse l’evocazione dei padri taciturni, e della loro vita sofferta, prima di noi? Le sigarette rollate in disparte, con le mani che tremano, in un gesto ripetuto e schivo, non richiamano quelle dei nostri padri o dei nostri nonni?

Ritratto di Daniele Vicari

Michele Placido in ‘Orlando’: foto dal sito di Filmitalia

Ci piacciono molto i riferimenti agli affetti del regista, quando ci si svelano,  il pudore con cui sembra quasi apporre la firma ai suoi lavori, come facendoci un regalo, quello della fiducia.

Cronaca e racconto

Dal pubblico al privato, da se stesso al mondo, gli sguardi di Vicari, ampi per le visioni d’insieme e profondi nei dettagli, fanno delle sue narrazioni un’interessante armonia di cronaca e racconto. Emanuele nella battaglia è una ricostruzione appassionata, mentre Vicari scrittore sembra un equilibrista sul filo di una giusta distanza impossibile da raggiungere.

Avrebbe potuto farne un documentario, sull’omicidio assurdo di Emanuele, ma non se l’è sentita, giustamente, d’invadere casa Morganti con la cinepresa. Preferisce scriverne, stando di fianco alla famiglia e non di fronte, una presenza discreta, fatta di ascolto attivo e condivisione dei momenti drammatici. Il suo stile non è sempre giornalistico, come quello di Truman Capote  nell’appassionante A sangue freddo. Piuttosto, un confidente che riporta tutto con delicatezza, in una prosa distesa, ma un lessico che si fa duro quando deve, e colpisce ancora di più perché si stacca con forza dalla gentilezza, dal rispetto, dalla misura delle pagine.

Daniele Vicari riesce a maneggiare con sicurezza tutto il materiale che passa dalle parole. Le immagini sono suggerite dai fatti, dai resoconti giudiziari, dagli sfoghi di Melissa, la sorella; dallo sconforto della mamma, Lucia, dalle testimonianze degli amici, vere nelle loro contraddizioni.

Non vale la pena vivere la vita se non si lotta (Pippo Fava)

I personaggi di Vicari si affannano in uno stato di tensione perenne. Quanto ci siamo affezionati alla Eli di Sole, cuore, amore (era il 2017)! E quanta stanchezza abbiamo sentito insieme a lei, mentre corre per raggiungere il bar dove lavora!

Ancora una volta un bar, dove Eli non si lamenta. Anzi, mantiene il buonumore per tutti, a compensare lo sguardo spento del proprietario immusonito che non la merita, le preoccupazioni sul permesso di soggiorno della collega immigrata, che lei protegge come può. Come non avesse  un marito disoccupato, i quattro figli che l’aspettano, la fatica che si accumula, i soldi che non bastano, la salute che comincia a presentare il conto.

Ritratto di Daniele Vicari

Sole, cuore, amore. Foto tratta dal sito di Filmitalia

Eroi del quotidiano, però, come empatia, è un’espressione che non ci piace più, troppo sfruttata e svuotata di senso. Diremmo piuttosto che lo sguardo attento di Daniele Vicari riesce a cogliere e scrivere le storie che contano  (sempre presente nella sceneggiatura dei suoi film, da solo o con altri)  E, nonostante spesso si parli di morte, a raccontare la vita, con una sana benevolenza nei confronti di tutti i personaggi in scena, sia sul set che sulla pagina scritta.

Bisogna tornare a occuparsi di ciò che succede intorno a noi. Con amore, rabbia, acutezza di stile’.

Daniele Vicari direttore della scuola di cinema

Abbiamo riconosciuto a Vicari uno sguardo ampio profondo attento. Come esperto di cinema e direttore artistico della Scuola d’Arte Cinematografica Gian Maria Volonté, fondata da lui stesso, possiamo attribuirgli anche uno sguardo lungo. Aperto e sereno nei confronti del futuro. Nelle possibilità dei giovani, nel dialogo con loro, la collaborazione, i linguaggi sempre nuovi, le tecnologie e le sperimentazioni.

Ne Il cinema. L’immortale uscito un mese e mezzo prima dello struggente suo film, Orlando, Vicari si discosta dai lamenti di registi, come Cronenberg, sulla fine del cinema, ritenuto ormai senza speranze. Il cinema invece sta attraversando, secondo lui,  un momento di passaggio epocale, di cui è doveroso approfittare per prospettive nuove e più articolate. II giorno e la notte, il suo film a distanza durante il lockdown, un vero e proprio esperimento cinematografico, tutto girato in smartworking vuole essere proprio la dimostrazione  di queste opportunità.

Il futuro è una terra  straniera

Il futuro è una terra straniera è il titolo di un capitolo de Il cinema. L’immortale; una terra straniera questa volta colma di novità, tra le quali inserisce proprio la regia a distanza de Il giorno e la notte.

Motiva, argomenta, utilizza cifre a supporto delle sue convinzioni. Ma la parte che ci è piaciuta di più è la mezza paginetta in cui afferma che studiare il linguaggio del cinema fin dalla scuola dell’obbligo rende più liberi nel manipolare e interpretare gli audiovisivi. Non si diventerà per questo tutti registi, come non si diventa scrittori componendo temi sull’attualità o sulla primavera. Studiare il cinema a scuola è un vero e proprio diritto di cittadinanza, lo definisce altrove.

E i diritti di cittadinanza Daniele Vicari li ha sempre rivendicati, con toni e storie diversi, ma la stessa decisione. In un cinema il suo, che più sincero di così non si potrebbe.

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