Un’ombra sulla verità di Philippe Le Guay, prodotto da Anne-Dominique Toussaint, sarà in sala in 31 agosto, grazie a BIM Distribuzione. Molte arene estive però lo stanno programmando in questa metà d’agosto (oggi a Bologna, a Milano, Arianteo, la sera del 23).
Il regista francese, che ci ha abituati a sorridere con Le donne del sesto piano e Molière in biciclette, questa volta ci offre una storia in cui l’ombra del titolo s’ispessisce sempre più, fino a diventare insostenibile. Un vero e proprio thriller dell’anima. D’altra parte, già con Florida nel 2015, aveva dimostrato la sua capacità di penetrare nella psiche del protagonista, Claude Lherminier (Jean Rochefort) alle prese con i primi segni della demenza senile. Florida è una commedia che si fa dramma, e lo stesso possiamo dire di Un’ombra sulla verità.
Non si ride e non si sorride più, perché non c’è niente di cui sorridere, di ridere ancora meno.
Un’ombra sulla verità La trama
A Parigi, Simon ed Hélène decidono di vendere una cantina nello stabile dove abitano. Un uomo dal passato torbido l’acquista e ci va a vivere senza dire niente a nessuno. Piano piano la sua presenza sconvolgerà la vita della coppia (Sinossi ufficiale del film).

Jerenue Renier e Fronçois Cluzet in una scena del film. Foto Caroline Bottaro (materiale stampa)
Un’ombra sulla verità I protagonisti
La macchina da presa inquadra da subito i due protagonisti in una posizione simmetrica, a rendere la fiducia iniziale, la simpatia del loro primo incontro. Sono già in cantina, e non c’è bisogno di scomodare tanta psicanalisi per intuire che da lì non possiamo aspettarci nulla di buono.
Simon Sandberg (Jerenue Renier) è il proprietario. Decisamente un uomo realizzato: bella moglie, Hélène (Berenice Bejo), un buon lavoro e la carinissima figlia adolescente, Justine (Victoria Eber). Con le sue bizze, sì, ma pur sempre a completamento di una famiglia serena. A tavola, tra loro tre e a casa della nonna, ogni domenica, circola un’affettuosa, ottima comunicazione. Le giornate della famiglia Sandberg scorrono tranquille, a rendere gli accadimenti successivi ancora più intollerabili.
Jaques Fonzic (Fronçois Cluzet) è l’anziano acquirente. Si presenta come un uomo solo, con l’aria dimessa e depressa di chi, oltre ad aver perso la madre da poco, si trova momentaneamente senza un tetto. Discreto, di buone maniere, esprime con umiltà, e dignità, la gratitudine per l’aiuto di Simon che non si risparmia, senza pensare minimamente a difendersi.

Fronçois Cluzet e Berenice Bejo in una scena del film. Foto di Caroline Bottaro (materiale stampa)
Una vicenda carica di tensione
Sembra impossibile che una così gradevole amabilità debba degenerare nell’odio cieco che vede i duellanti alle prese con una lotta senza sosta. Ogni nuova scoperta della malafede di Fonzic si rispecchia in un contraccolpo interiore di Simon, che da vittima riscopre tutta la sua aggressività messa a tacere nei decenni.
Il motivo del contendere non è banale, perché il vecchietto inoffensivo dell’inizio, piazzato inamovibilmente nella cantina della casa di Simon, altri non è che un convintissimo negazionista. E guarda caso, le origini di Simon sono ebraiche. Fonzic diventa un temibile persecutore, scomodando a ogni mossa le certezze del giovane rivale, che, a differenza del fratello e della madre, ha preferito nascondere la polvere sotto il tappeto, come gli rinfaccia con disprezzo lo stesso Fonzic.
Simon è una persona trasparente, generosa, aperta, ma a costo di non farsi scomodare dai fantasmi del passato, che l’antagonista invece risveglia senza pudore. Questo contrasto tra le luci e le ombre di un Sé costruito sulla dimenticanza (su una sua personale forma di negazione) riassume l’inquietudine di tutto il film.
Le location esterne e interne
Non si vede molto Parigi, perché in realtà il racconto di Le Guay è intimo e universale insieme. La storia dell’altro da sé che costringe a fare i conti con la parte rimossa della propria personalità non è nuova, nel cinema e nella letteratura. A Parigi come altrove, oggi e in tempi passati.
Per questo, della città vediamo solo qualche esterno di sfuggita, quando Simon corre, per esempio (ma perché tutti i personaggi dei film e delle serie tv corrono?), tanto da farci capire che non siamo in periferia, ma niente di più. Non certo le belle location che abbiamo ammirato in Parigi,13 Arr, dove lo sfondo si fa anche, volutamente, protagonista. Un’ombra sulla verità, invece, non vuole distrarci dall’ansia che deve salire, evitando ogni sorta di edulcorazione.
Anzi, addirittura riesce ad imbruttire anche la casa di Simon, con riprese nel cortile dal pianterreno fino alla finestra del suo appartamento, a suggerire un’angustia dello spazio e della mente. Ci aspettiamo che il cortile si faccia teatro di chissà quali eventi, ma resterà sempre la cantina, con la sua discesa e i corridoi poco illuminati, il luogo della paura, com’è giusto che sia. L’homme de la cave è infatti il più azzeccato titolo francese.
Il messaggio del film
Secondo l’avvocato di Simon, l’homme de la cave fa parte della trentina di negazionisti convinti che in Francia delirano in un angolo, ma che con internet iniettano tutto il loro veleno.
L’allegoria di un contagio, che ormai si sparge senza vergogna
attraverso tutti i canali,
è di quelle che una volta viste vi si piazza in testa
e non vi molla più.
Fabio Ferzetti ‘E
Non si dimentica facilmente questo film, infatti. Perché Le Guay non solo ha avuto il coraggio di parlare di negazionismo, ma ha reso monsieur Fonzic quasi più convincente dello stesso Simon. Infatti, mentre Simon comincia a perdere la calma, e la testa, Fonzic conquista la fiducia di alcuni condomini e riesce a comunicare con Justine.
Non convince noi, certo, ma rende l’idea di dove possano arrivare i suoi modi suadenti, la manipolazione, il vittimismo, la sicurezza di essere dalla parte del giusto, della ricerca di una verità liquidata frettolosamente dalla storia.
Ed è facile capire, ahinoi, come le sicurezze su cui si basano le nostre vite siano sempre in pericolo e non acquisite una volta per tutte.