Un documentario sull’uomo d’affari, disk jockey e influencer bolognese Gianluca Vacchi: dalla nascita in una famiglia borghese alla notorietà e al successo internazionali raggiunti attraverso il suo spirito imprenditoriale e la sua capacità di cogliere e anticipare i cambiamenti del mercato e dei gusti del pubblico. Dal 25 maggio su Amazon Prime Video.
Il film racconta l’ascesa alla fama del protagonista alternando interviste allo stesso Vacchi, ai suoi familiari, a suoi amici e collaboratori. Vacchi si mette davanti all’obbiettivo e senza filtri si presenta allo spettatore mentre ripercorre le tappe più significative della sua vita, spaziando dalle memorie familiari ai momenti di difficoltà fino all’agiatezza e alla popolarità ormai raggiunte. Ne sortisce così il ritratto- o meglio, l’autoritratto-, di un uomo appagato e soddisfatto, costellato dalle testimonianze delle persone care e degli amici che ne attestano l’unicità e il valore, sia sul piano personale sia su quello dello professionale e artistico.
Il documentario si presenta fin da subito non solo come interamente incentrato sul protagonista ma- come si accennava-, privo di qualunque filtro (per questo si è scelto di parlare di autoritratto): manca infatti una regia che costruisca, dia forma e organizzi il materiale ripreso prima di proporne la visione allo spettatore. Quella che si vede non è la storia di Vacchi mediata da una qualsivoglia idea di regia, qui del tutto assente: è un flusso ininterrotto di ricordi, aforismi, consigli, rivendicazioni di successo che il protagonista ostenta senza freno, confermate ed enfatizzate dalle interviste ai familiari e agli amici, tutti concordi nel sottolineare le doti eccezionali di quest’uomo che ne giustificano il successo, presentato anch’esso come un fatto naturale e scontato, viste le qualità che possiede.
Il montaggio tipico del videoclip che velocizza al massimo lo scorrere delle inquadrature accentua sul piano del significante l’ascesa sociale di Vacchi, resa ancor più eccezionale e unica da una fotografia luminosa e patinata di derivazione pubblicitaria: sono inquadrati i luoghi tradizionalmente associati al lusso e allo sfarzo dell’alta borghesia: oltre alla fastosa villa bolognese, quella altrettanto faraonica a Porto Cervo, cui si accompagnano viaggi in yacht a Miami e vacanze a Cortina.
Anche i momenti in cui il protagonista rievoca memorie legate all’infanzia o si abbandona a confessioni intime arrivando persino a commuoversi suonano falsi e privi di autenticità come fossero preparati e recitati ad hoc. L’insistita ostentazione del proprio successo e la sfida ai detrattori a raggiungere la sua stessa posizione rendono questo documentario un monumento eretto dal protagonista a se stesso, che davanti a una macchina da presa dietro alla quale manca la figura più importante, quella del regista, celebra se stesso e il proprio potere economico, l’ascendente sulle masse che affollano i suoi dj set, conseguito attraverso il sapiente uso della rete e la propaganda della propria immagine.
Viene dunque a mancare qualunque obiettività ed imparzialità, qualunque distacco dalla materia trattata, tanto neutra se non complice è la regia (e con questa la fotografia e il montaggio), tutta concentrata nel costruire e presentare l’immagine di un uomo che costantemente rivendica, nell’esigua durata di un’ora e dieci, «io ho vinto!», «io ho vinto!».