Anno: 2011
Durata: 133′
Genere: Drammatico
Nazionalità: USA
Regia: Bennet Miller
Molto spesso sono l’emblema del cinefilo, dello studioso, con pregiudizi e la puzza sotto al naso. Intendiamoci: non ho mai disdegnato alcuna visione, ho sempre amato il cinema tout court, indipendentemente da genere, budget, cast e regista… ma mi sono ritrovato più di una volta, ahimè, a sostenere, supponente, quanto certo cinema commerciale sia sempre e comunque un gradino più in basso rispetto a quello cosiddetto, definito, d’autore, qualunque accezione questa parola abbia. Come a dire: amo il cinema, tutto, ma per favore, operiamo qualche distinzione.
Uscito dalla visione di L’arte di vincere – Moneyball questi discorsi mi sono tornati alla mente, facendomi decisamente ricredere. Perché questo è il modo di fare cinema, questo è il modo di fare blockbuster. Il film, diretto dal Bennet Miller regista della biografia di Truman Capote con Philip Seymour Hoffman come protagonista, è tratto da una storia vera: quella di Billy Beane e la sua sfida nei panni di General Manager nella squadra di baseball Oakland Athletics. A fronte di un budget decisamente più ridotto rispetto a quello delle squadre avversarie decide di rifondare la formazione basando gran parte delle sue scelte di mercato su calcoli statistici. Operando una vera e propria rivoluzione in uno sport in cui passione, sangue, sudore ed esperienza la facevano ancora da padroni. Un film che per certi versi segue pedissequamente le regole non scritte del cinema sul baseball e sportivo in generale. Prima fra tutte, la struttura classica del rise and fall, che solitamente si manifesta in una sonora sconfitta nelle prime partite della stagione della squadra capitanata dai protagonisti della pellicola. Anche Moneyball non tradisce questa “tradizione”, rispettando quindi uno schema già collaudato.
La novità in questo caso si chiama “misura”: retorica, enfatizzazione, sentimentalismo, sono sempre latenti, sottopelle, presenti, si capisce, ma mai sparati fino all’esasperazione dello spettatore più esigente. E ne è lo specchio il rapporto del protagonista, un Brad Pitt che non si vergogna di inforcare un paio di occhiali da quasi cinquantenne, con ex moglie e figlia. Parentesi di dolcezza che tali rimangono, salvo amplificarsi nel finale in una canzone conclusiva che ha più il sapore della tenerezza che del patetismo. E così, misurato e mai sopra le righe, è tutto il cast, tra cui spiccano Philip Seymour Hoffman che si candida ad essere attore feticcio per Bennet Miller, e soprattutto Jonah Hill che nel giro di un paio di anni si è emancipato dai ruoli della commedia apatowiane come Suxbad e Non mi scaricare. Moneyball non è il nuovo Che botte se incontri gli “Orsi”, ma ti riconcilia decisamente con l’emozione di una sala piena di spettatori che non esitano ad applaudire a pellicola finita.
Michelangelo Pasini