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Interviews

‘Dal pianeta degli umani’, intervista al vincitore del Festival dei Popoli Giovanni Cioni: “una storia vera mai successa”

Il documentario del regista toscano, presentato fuori concorso al Festival di Locarno e in arrivo al cinema nel 2022, esplora le frontiere dell'incredulità muovendosi sul confine italo-francese, dove si sovrappongono follie del dottor Voronoff, rotte di migranti e fantasmi

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Dal pianeta degli umani: una delle ricorrenti immagini di una rana

Serge Voronoff, scienziato semi-dimenticato, ma negli anni ’20 e ’30 pressoché una star, trapiantava testicoli di scimmie sugli uomini. Per donare vigore e giovinezza, diceva. La sua villa abbandonata sulla riviera ligure, a Ventimiglia, serba il ricordo di quella lucida follia. Proprio lì, alla frontiera italo-francese, sciama il flusso – e riflusso – di migranti respinti nel tentativo di superare il confine. A volte, dirottano verso il sentiero della morte, dall’altro lato della villa.

Dal pianeta degli umani di Giovanni Cioni, di recente miglior lungometraggio del Festival dei Popoli di Firenze, è il sopralluogo in quei territori, nel limbo del dramma presente, delle storie passate, di un immaginario che si cumula.

Per alchimia cinematografica, Cioni coglie i segni e le storie disparate: le tracce del passaggio dei migranti, le gabbie delle scimmie abbandonate, le cisterne col canto regolare delle rane. Le ricombina con suggestioni del cinema muto; quasi il suo documentario fosse, semmai, un racconto fantastico. Ne fa una sinfonia imperdibile sulla vita e sulla morte, sull’apparire e sul dissolversi, con tante traiettorie di senso a incrociarsi, rimanendo stimolo aperto. E realtà incredibile. Ne abbiamo parlato col regista e ne è venuta fuori una guida per non perdersi nel suo pianeta degli umani. Anche un’affidabile bussola del cinema di Giovanni Cioni.

Il trailer di Dal pianeta degli umani

Il film è prodotto da Graffiti Doc (Torino), Iota Production (Belgio), Tag Film (Francia); in coproduzione con Rai Cinema, ARTE GEIE e RTBF, con il contributo di Piemonte Doc Film Fund, Toscana Film Commission – Sensi Contemporanei, CNC, Centre du cinéma de Belgique.

L’intervista: Giovanni Cioni racconta Dal pianeta degli umani

FIABE VERISSIME

È una fiaba, non è mai successo, è una storia vera. Nell’incipit del film, entro un’incorniciatura grafica da didascalia del cinema muto, compaiono queste tre scritte. Se vedere un film fosse una questione di pura logica, interverrebbe il principio di non contraddizione a contestare tali diciture: come può una cosa non essere mai successa ed essere vera allo stesso tempo? Ma nel cinema, e nel cinema di Cioni in particolare, questo equilibrismo sulla frontiera tra reale e finzione è un tratto peculiare. Come lo racconteresti a chi non ha visto Dal pianeta degli umani?

Il sentimento da cui scaturisce la mia volontà di dire non è mai successo, ma è una storia vera corrisponde a quello che ho provato alla frontiera tra Italia e Francia, dove si svolge il documentario. Deriva da ciò che vedevo e che non vedevo, dal silenzio intorno a me. Non volevo esplorare tanto il rapporto tra il reale e la finzione, quanto la frontiera dell’incredulità, intesa come la difficoltà di credere a ciò che è reale.

In questa esplorazione, ricordando che il tuo film sarebbe tecnicamente un documentario, da cosa sei partito?

Dalla finzione. Appena mi hanno parlato di questa sorta di scienziato pazzo, Voronoff, e delle sue sperimentazioni per il ringiovanimento, ho subito pensato a film degli anni ’30 come L’isola del dottor Moreau. Per raccontare l’incredulità nel presente uso un dispositivo simile a quello di un film fantastico dell’epoca del muto. Dire, dunque, che è una storia vera, che non è mai successa e che è una fiaba allo stesso tempo, è stato il mio modo per raccontare qualcosa di reale che non avrei saputo narrare altrimenti se non con questo senso del fantastico.

STORIE DI FRONTIERA, FRONTIERE TRA LE STORIE

Tutte le notti, la frontiera, si dice nel film. Ci hai portato in questi spazi liminari in cui molti migranti vengono respinti. Non è il primo documentario che utilizza lo spazio della frontiera, ma l’aspetto interessante è che tu ne usi il tempo, cioè, guardi a quei luoghi come se fossero dei sedimenti di storie. Si può riassumere, dunque, affermando che hai raccontato il tempo della frontiera, e non solo lo spazio?

Ho fatto proprio questo. L’ho analizzata come una sovrapposizione di tempi nello stesso spazio. Per questo ho creato raccordi di immagini degli anni ’30, con l’allevamento di scimmie del dottor Voronoff, per poi tornare nello stesso luogo e vedere cosa ci fosse oggi. Tempo e spazio sono intimamente connessi. Nel cinema separiamo spesso le cose; invece ci sono sovrapposizioni di tempo, non nel senso di vivere qualcosa di già vissuto un secolo fa, quanto nel realizzare che le cose accadute non sono scomparse, ma restano lì come fantasmi. Nello stesso luogo, da sempre frontiera, sul sentiero della morte, prima c’erano militanti e antifascisti, oggi i migranti.

Con la macchina da presa percorri alcuni tratti di questo sentiero, detto appunto della morte, che consente il passaggio dall’Italia alla Francia. E ti fermi a osservare i segni di quelle storie. Cos’hai trovato lì? Cosa raccontavano i segni?

I segni erano abbastanza flagranti. C’era innanzitutto il treno, il respingimento dei migranti, i luoghi dove erano costretti a rifugiarsi, ma anche le gabbie abbandonate delle scimmie nella villa fantomatica del dottor Voronoff, attorno alla quale inizia il sentiero. E poi, sul sentiero stesso: tracce di passaggio, valigie abbandonate, vestiti, fumetti. Risalendo il sentiero, segni, ancora; indicazioni per la caccia, ad esempio. Per me l’idea del film era quella di un sopralluogo, cioè, di quanto arrivi in un posto dove sia successo qualcosa ma non ti sia chiaro cosa.

OTTANTA MONDI TRA CINEMA E REALE

Sono storie da ricostruire, da immaginare. Poi, però, accanto ad esse, le storie del cinema e della letteratura, in forma di suggestione da accostare a quei segni. Cosa ti è sovvenuto del mondo finzionale a partire dal dato concreto?

All’inizio ho collegato a quel romanzo di Adolfo Bioy Casares, L’invenzione di Morel, pensando di fingere che fossimo su di un’isola abbandonata – come nel romanzo – i cui abitanti sono misteriosamente scomparsi, per poi riapparire come spettri di sé stessi, proiettati in loop. Questa è stata la mia fantasia, ma unita alla volontà di raccontare qualcosa sulla vita del presente. È come se avessi trovato elementi esistenti che dovevo rimettere insieme per creare delle risonanze.

Ecco, le risonanze. Mi calo nei panni di uno spettatore. Chi vedesse Dal pianeta degli umani al minuto 13, si troverebbe immerso in un discorso relativo a migranti alla frontiera tra Italia e Francia. Chi lo vedesse al minuto 43, sarebbe dentro la storia del dottor Voronoff. In È stata la mano di Dio, Paolo Sorrentino mette in bocca a un personaggio la dichiarazione di poetica per cui la realtà è scadente. Per Giovanni Cioni, possiamo dire invece che una realtà non basta? E che su questa base, Dal Pianeta degli umani sia un racconto costruito per analogie?

Certo. Sono completamente contrario all’idea che la realtà è scadente. Bisogna imparare a tornare a camminare, a perdersi, a uscire dalle cisterne nelle quali ci siamo rinchiusi. Non so se si possa parlare di realtà come di qualcosa di unico. In questo, mi sento di dire di essere amante dello scrittore argentino Julio Cortázar. Amo il suo Il giro del giorno in ottanta mondi. È necessario capire che la realtà è molteplice e al suo interno saper creare i nessi entro la molteplicità. Soprattutto, mi piacerebbe sovvertire i termini con i quali si rappresenta la realtà. Anche politicamente. Non so se questa sia una dichiarazione di poetica, ma certo è una chiave per capire il film.

KING KONG E IL DUCE

Parliamo proprio di questi nessi. C’era quello che vedevi alla frontiera: i migranti, la villa abbandonata e tutto quanto riferivi poc’anzi. Ma poi c’è un lavoro d’archivio che quasi stordisce lo spettatore nell’accumulo, studiato, delle analogie visive. Cosa cercavi? Devi pur aver avuto qualche idea iniziale per non perderti nel mare magnum degli archivi, compresi quelli della storia del cinema.

Sin dal primo giorno mi sono venuti in mente King Kong, nella prima versione, e L’isola del dottor Moreau, come ti dicevo. Poi ho ripensato anche a Erich Von Stronheim per una ragione piuttosto curiosa: nel film Foolish Wives, ha ricostruito la riviera effettuando delle riprese in California. Mi interessava questo aspetto di mettere insieme immagini di quel luogo che in realtà non erano di quel luogo. I film mi sono venuti subito. In generale, nell’immaginario di quell’epoca è fortemente presente il rapporto tra l’uomo e l’animale, al punto da generare un filone di film sulla donna scimmia o sull’uomo scimmia. Mi sono andato a rivedere molte cose, ma poi mi sono imposto di non cedere alla tentazione di farne un gioco di citazioni, altrimenti mi sarei perso.

Dal pianeta degli umani: un fotogramma tratto da King Kong

Dal pianeta degli umani: citazione di un fotogramma tratto da King Kong (1933)

Negli archivi non cinematografici, invece, cos’ha orientato la tua ricerca?

Cercavo archivi legati alla storia coloniale, perché l’approvvigionamento di scimmie di Voronoff fu organizzato da un suo amico amministratore coloniale. Nell’ambito dei rapporti coloniali, poi, c’erano vicende sconvolgenti che raccontano lo sguardo sull’altro, come la creazione dello zoo umano. Procedevo, insomma, per associazioni. Non dico per parlare di tutto, ma comunque alla ricerca di collegamenti.

Storia coloniale vuol dire Fascismo. L’ideologia fascista si connette proprio all’idea di ringiovanimento promossa dai folli esperimenti di Voronoff. Che ruolo hanno avuto nel tuo film le immagini di epoca fascista?

Potrei dire che Voronoff, peraltro citato dallo stesso Mussolini, si sentiva protetto dalla propria notorietà nonostante fosse ebreo. Ma il punto importante è un altro: il Fascismo nega la realtà nella sua molteplicità. Ti fa credere che si possa vivere un’eterna giovinezza e che tutto possa essere mantenuto nel suo ordine se ognuno si comporta in un certo modo. Questo ha forti risonanze col nostro tempo. Non solo con i movimenti fascisti. Mi riferisco soprattutto alla difficoltà del rapporto che abbiamo con la realtà, con quello che succede, con ciò che non vogliamo vedere. In questo senso la storia di Voronoff e del Fascismo si proiettano su quello che succede oggi. Al di là della frontiera, dove si volge il film, che diventa epicentro e condensato del presente.

E cos’è che non voleva vedere questo scienziato visionario, al limite della follia?

Voronoff non può accettare quello che succede: di essere sempre più debilitato, che tanti mettano in dubbio la veridicità delle sue esperienze. Probabilmente era anche in buona fede, ed è questo che è terrificante. Lui che era fuggito dalla Russia e dai pogrom, diventato famoso e ricco, si sentiva protetto. Non riesce nemmeno a vedere quello che sta succedendo con l’avvento di Hitler in Germania e con le leggi razziali di Mussolini. Fuggito in America, è tornato nel dopoguerra come se potesse riprendere le esperienze di prima, ma il mondo, ormai, lo ignorava.

Dal pianeta degli umani: un gioco di dissolvenze con scienziati al lavoro

Dal pianeta degli umani: un gioco di dissolvenze con medici scienziati al lavoro

Quello che si configura, tra le citazioni, come fiabesco, è per lo più dato dagli inserti dal cinema muto, se ben intendo. Si può dire allora che nel tuo film sia proprio il muto a rivestire questo valore espressivo, cioè di generare il fiabesco come umore, come atmosfera?

Sì, nel senso che è stata la mia prima intuizione. Volevo partire da lì per sovvertire lo sguardo sull’uomo facendo dei viaggi nel tempo. Anche il tipo di colorimetria che ho utilizzato per le immagini di sopralluogo oggi è stato frutto di una meditazione ben precisa. Volevo un technicolor in parte pastellizzato, in parte saturato, stile anni ’50, affinché non si creasse una dicotomia fin troppo scontata tra immagini di archivio in bianco e nero e immagini a colori di oggi. È come se ci fossero strascichi di colori del passato che restano ancora oggi.

IL PIANETA DELLA PANDEMIA

In tema di dicotomie, a un certo punto la tua voce fuori campo dice: l’istinto della vita e l’orrore della morte. Nella molteplicità dei nessi di Dal pianeta degli umani, si rischiava di fare un film su tutto, che spesso significa sul niente. Hai sentito il peso di un’impresa filmica che, parlando di vita e di morte, approcciasse i massimi sistemi e diventasse una vuota astrazione?

Sì. Infatti è per quello che ti dicevo di aver lottato affinché il film non si riducesse a un gioco. Lottavo contro il fatto di ridurre la cosa a un gioco. Ci sono stati dei momenti in cui mi sono interrogato sull’eventualità che, in effetti, non stessi raccontando niente. In compenso, però, ho cercato di ancorare il racconto al vissuto, ossia l’esperienza che fai mentre giri il film. Sono andato a cercare anche una persona che avevo incontrato anni prima e su cui avevo scritto una sceneggiatura di un film mai fatto. Il senso è anche in ciò che succede a persone che sono vicine, quando ti chiedi se stiamo vivendo sullo stesso pianeta e nella stessa realtà. È un aspetto terrificante del nostro tempo e della pandemia. Ho cercato di metabolizzarlo per non fare del film né una cosa ludica né didascalica.

La pandemia: a un certo punto spunta quella maledetta parola, virus. Anche il Covid è tra le cose che succedono, del vissuto a cui restare aperti. Sei stato condizionato dall’avvento dell’epidemia mondiale?

Dal pianeta degli umani è molto condizionato dal fatto di essersi svolto durante il confinamento, anche se concepito tempo prima. Quando è subentrata la pandemia, mi sono detto che bisognava fare il film in assenza, ossia, come se anche il presente, con quello che hai appena vissuto, appartenga già a un’altra epoca. Basti pensare alle immagini di Sanremo che ho mostrato: oggi è strabiliante persino l’idea di stare in mezzo alla folla.

Si può quindi dire che la pandemia ti ha portato a direzionare il senso di quello che stavi riprendendo e montando?
Esatto. In pratica la tua domanda contiene la risposta. Io non faccio film su temi. Parto da intuizioni, per viaggi che nemmeno so dove mi possano portare. In questo viaggio c’è stato anche il virus, così come imprevisti di altro tipo.

LE RANE CI GUARDANO

Tra gli imprevisti, la scoperta delle rane nelle cisterne. Non sono oggetto del tuo film; sembra piuttosto che ci sia il loro sguardo animale sugli umani a raccontarne le storie. Come si è sviluppata questa insistenza visiva e sonora sulle rane? A cosa alludono?

Le rane mi hanno chiamato. All’inizio le avevo registrate per materiale sonoro. Poi ho avuto questa suggestione che fossero proprio le rane a raccontare la storia. Le senti ma non le vedi; scompaiono ma poi tornano, esseri tra la vita e la morte. Le rane cantano nelle loro cisterne. Mi sono chiesto: viviamo solo nelle cisterne che ci fabbrichiamo e nelle quali “cantiamo”, o siamo capaci di uscire da queste cisterne? Non dico che questa sia la morale della favola, ma l’augurio della riflessione che possa scaturire dalla visione del film. Anche per questo, a un certo punto, avevo persino pensato di fare in modo che la storia fosse raccontata interamente dalle rane. Non era però filmicamente possibile. Sono quindi arrivato all’idea della voce fuori campo. Ed è la prima volta che la uso.

Dal pianeta degli umani: le cisterne con le rane

Dal pianeta degli umani: le cisterne con le rane assumono una valenza simbolica

FANTASMI IN DISSOLVENZA

Ma sei solo una voce, un fantasma in un film di fantasmi: le assenze dei migranti, che però sono anche presenze dei loro segni; gli spettri del romanzo che citi, L’invenzione del Dottor Morel. Visivamente, l’ampio impiego delle dissolvenze crea un effetto da ghost story, con apparizioni e scomparse. Come è nata l’idea di un uso così diffuso e simbolico della dissolvenza?

L’idea della dissolvenza e della sovrapposizione di immagini viene dall’inizio, quando ho pensato di lavorare su strati di tempo e di luoghi. Era inevitabile che lavorassi su dissolvenze lunghissime di tre o quattro immagini sovrapposte. Mi sono sbizzarrito, anche interrogandomi sul senso di questa operazione. Altrove, infatti, potrebbe divenire un uso didascalico o fin troppo insistito. Mi sono però detto che dovevo andare fino in fondo, perché in questo tipo di racconto la dissolvenza ha un senso. Come far vivere le immagini di archivio? Ho ritenuto che le immagini dovessero fare da supporto all’immaginazione che parte da esse. Le dissolvenze, dunque, mi permettevano di moltiplicare la dimensione delle immagini.

Questa idea, fascinosa, di un film che per lo spettatore si dissolva e si riformi sotto lo sguardo, mi fa venire in mente una frase del regista belga Olivier Smolders, quando dice: mi piace l’idea di un film che ti sfugge, col quale non riesci a fare i conti (can’t get to grips with, in originale). È così anche per Dal pianeta degli umani? Ossia, che dietro l’apparente bulimia di immagini sovrapposte, ci sia in realtà una cospicua quota dell’invisibile?

Intanto lasciami dire che sono cresciuto in Belgio, conosco e mi piace molto il cinema di Olivier Smolders. Non ha il riconoscimento che meriterebbe, ma i film rimangono. Io penso che il film debba essere più intelligente di chi lo fa. Deve superare le intenzioni che tu ti prefiggi. Ti deve sfuggire, cominciare ad avere una vita propria. Ti rendi conto di alcuni nessi e connessioni dopo, quando lo mostri, quando se ne parla. Non mi piace avere il controllo sul film, né mi reputo qualcuno con qualcosa di particolare da dire. Mi piace, piuttosto, creare qualcosa che con la sua vita ti sfugga, facendo al contempo capire qualcosa a cui nemmeno avresti pensato. È come una composizione musicale: deve aprire i sensi, non chiudersi in un discorso.

Un bambino sulla spiaggia. La pellicola rovinata e il gioco delle dissolvenze

Dal pianeta degli umani: un bambino sulla spiaggia. La pellicola rovinata e il gioco delle dissolvenze creano un effetto “fantasmatico”

VOCI DALL’INVISIBILE

Ma su alcune cose hai il controllo. Per esempio: l’idea che in realtà i migranti alla frontiera non si vedano mai. Pensavo a Fuocoammare di Gianfranco Rosi, in cui il Mediterraneo diventa un cimitero, e lo collegavo alla scena in cui definisci il sentiero della morte un “mausoleo”. Perché allora lasciare invisibili i migranti? È stata una tua precisa idea sin dall’inizio?

Onestamente, no. In un primo tempo volevo percorrere il sentiero della morte con alcuni di loro. Per questo avevo incontrato delle persone con cui sono rimasto in contatto, senza però filmarle. Ma ecco: le cose che ti succedono sono più intelligenti di te. Mi sono reso conto che sarebbe diventato un altro film. C’è bisogno di mostrarli per dare una prova che esistono? Se il film è parlare di questa invisibilità, che senso ha mostrarli? Ne parlo perché li ho incontrati. Ho scartato anche l’idea di mostrarne i messaggi su Messenger.

In una scena però ti si vede colloquiare con uno di loro.

L’unica scena in cui si vede un migrante è quando uno di loro mi si avvicina per chiedermi informazioni. Mantengo la macchina da presa in mano, ne inquadro solo i piedi, e gli spiego, senza mostrarne il viso, che poco oltre c’è un magazzino in cui i volontari preparano il caffè e ti fanno ricaricare il cellulare se ne hai bisogno. Perché non l’ho filmato? Non filmo mai nessuno senza conoscerlo.

Infine, sentiamo la tua voce a lungo nel film. Non parlerei, però, di una tua presenza ubiqua. La voce appare, scompare, rimescola. Non è un elemento di presenza e linearità. Te ne chiedo conferma: con questo flusso di coscienza, ti sei sentito più onnipresente, o di fatto un’assenza?

Si tratta un po’ di questo: di un rimescolare. È come se volessi rivolgermi con la voce alle immagini, come se mi chiamasse. Come se io stesso fossi lo spettro di cui parlo. Utilizzando la mia voce per la prima volta, temevo che diventasse quella che dà il senso al film. In realtà, il testo è stato scritto a frammenti in corso di montaggio. Doveva essere un giornale di bordo del film, per organizzare vari passaggi, fare chiarezza dove ci fosse bisogno. Alla fine, comunque, è organicamente rientrata nella dinamica degli altri elementi del film: quella di aprire i sensi.

Un film che apre i sensi. Ottimo modo di chiudere. Grazie dell’intervista.

Grazie a te. Ho potuto a mia volta riflettere ad alta voce su quello che ho fatto.

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Dal pianeta degli umani

  • Anno: 2021
  • Durata: 82'
  • Genere: Documentario
  • Nazionalita: Italia, Belgio, Francia
  • Regia: Giovanni Cioni