Mai un capitolo della saga era stato tanto sadico e splatter: nessuno può rimandare l’ora della sua morte perché, volenti o nolenti, tutti abbiamo una destinazione finale
La moda dei remake, dei reboot e dei sequel sembra destinata a non arrestarsi. Trasformare una pellicola di successo (anzi: di gradimento) in un oggetto di marketing, quindi, è diventato sempre più facile (e prolifico). Quando nel lontano 2000 James Wong, regista cinese ma statunitense d’adozione, diede vita a Final destination, una pellicola che divinizzava la morte e la rendeva protagonista assoluta dell’opera, produttori e registi fecero a gara per aggiudicarsi i diritti e realizzarne sequel (più o meno riusciti). Non fa eccezione l’esordiente Steven Quale che, dopo aver assistito colleghi esperti e talentuosi, si è seduto in cabina di regia per dirigere Final destination 5.
Durante un viaggio di lavoro, un gruppo di impiegati della Pressage Paper riesce a salvarsi dal crollo del ponte su cui transitano grazie alla premonizione di uno di loro. Sam, inizialmente accusato dalla polizia di essere l’artefice dell’incidente, viene guardato con sospetto dai suoi compagni, sebbene gli siano debitori. Ma, come dice il medico legale (una sorta di angelo nero), “alla Morte non piace essere ingannata” e così, mentre i ragazzi credono di essere salvi, questa torna a cercarli per completare l’opera e ucciderli tutti, uno alla volta. Sam, però, si accorge ben presto che i suoi amici muoiono nello stesso ordine in cui morivano nella sua visione. Basterà “regalare” alla morte la vita di un estraneo, per aver salva la propria?
Essendo vero il detto secondo cui “squadra vincente non si cambia”, lo sceneggiatore Eric Heisserer, autore del nuovo Nightmare, segue lo stesso schema della pellicola originale per raccontare una storia nuova. Davanti al pericolo di rendere il suo ultimo lavoro soltanto una “minestra riscaldata”, Heisserer riesce ad inventare “occasioni di morte” non banali, né prevedibili. In un gioco da film di spionaggio, infatti, conduce il pubblico su false piste che, alla fine del percorso, si rivelano vicoli ciechi. E così, mentre i personaggi (e gli spettatori) iniziano a rilassarsi, arriva la morte inaspettata, dolorosa, crudele. Mai un capitolo della saga, infatti, era stato tanto sadico e splatter: Steven Quale, allora, trasforma subito gli scenografici titoli di testa in frammenti di vetro che, grazie soprattutto all’uso magistrale del 3D, diventano lame affilate con cui colpire gli spettatori. E inoltre, frenetiche scariche elettriche, crepe nel terreno tanto forti da ricordare lo scioglimento dei ghiacciai, e un ponte fragile e incrinato, proprio come un Titanic di cemento, non fanno altro che avallare la stessa teoria: nessuno può rimandare l’ora della sua morte perché, volenti o nolenti, tutti abbiamo una destinazione finale.
Martina Calcabrini
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