L’onda lunga. Storia extra-ordinaria di un’associazione è il documentario di Francesco Ranieri Martinotti, fuori concorso al Torino Film Festival nella sezione Incanto del reale. Il film nasce da un’idea del regista e degli sceneggiatori Alessandro Rossetti e Alessandro Trigona. È prodotto e distribuito da Capetown – società indipendente di Camillo Esposito, vincitrice del premio alla distribuzione di Alice nella Città con Le buone maniere di Valerio Vestoso – e Luce Cinecittà, in collaborazione con Rai Cinema, Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, Archivio Anac, Ministero della cultura, Regione Lazio e con il patrocinio di Roma Lazio Film Commission.
Cinema italiano, una storia da rivendicare
L’Anac (Associazione nazionale autori cinematografici) nasce nel 1952, a partire dal Circolo romano del cinema che radunava i padri del neorealismo; prima ancora c’erano i Cineguf, al cui interno, in realtà, si svilupparono i primi impulsi antifascisti e si esercitarono forme di sperimentazione e democrazia culturale. Tra i primi soci: Age, Sergio Amidei, Michelangelo Antonioni, Lugi Comencini, Pietro Germi, Mario Monicelli, Roberto Rossellini, Furio Scarpelli, Ettore Scola, Steno, Cesare Zavattini, Marco Bellocchio, Liliana Cavani…; tra i direttori: Aldo De Benedetti, Vittorio De Sica, Pierpaolo Pasolini, Damiano Damiani, Bernardo Bertolucci, Carlo Lizzani, Ugo Gregoretti. L’elenco, incompleto, permette d’intuire la portata culturale di quegli incontri. In seno all’Anac, i più acuti autori dell’epoca dibattevano con fervore, per tutta la notte; «i quesiti» ricorda Giacomo Scarpelli «erano sempre morali, civili e politici; mai corporativi». La denuncia di allora, nella sintesi del documentario di Francesco Ranieri Martinotti, è chiara: il cinema italiano è morto, è diventato colonia straniera; inoltre: idee, non mercato.
Settant’anni dopo, nell’epoca del consumismo da streaming, del mercato degli algoritmi e di una concentrazione di potere senza precedenti nelle mani di poche major, rievocare le storiche istanze dell’Anac serve a scuotere il dibattito cinematografico quando, distratto dalle celebrazioni e dalla retorica, perde di vista le emergenze: l’isolamento delle produzioni indipendenti, la distribuzione dei profitti, l’egemonia delle piattaforme e la mortificazione della diversità culturale, l’impoverimento di soggetti e trame, il crollo dell’attenzione dello spettatore rispetto opere che durino più di sessanta minuti. Il cinema, invece, e il documentario lo sottintende, dovrebbe essere il luogo ideale in cui si combattono retorica e monopolio e si promuove l’alternativa; perché il cinema è, per sua natura, una materia che si espande, non qualcosa che si consuma. Il documentario contiene, infine, un fondamentale teorema: cultura e politica sono due organismi legati in un rapporto di mutualismo; traggono beneficio l’uno dall’altro e scinderli arreca danni a entrambi.
«Ognuno di noi aveva un’idea di futuro, una visione, giusta o sbagliata, per cui battersi. Che dava alle persone qualcosa d’invincibile».
Giovanna Gagliardo, regista
Intervista a Francesco Ranieri Martinotti, presidente Anac
La storia dell’Anac è anzitutto una storia di lotta politica. Il boicottaggio di Cannes, la polemica contro la Biennale di Venezia nel 1968, la legge sull’equo compenso degli autori, la battaglia contro la censura. I soci litigavano come matti – così viene raccontato – ma l’intento era unitario, l’ideologia compatta. Cosa resta, oggi, di quello spirito?
Sono cambiati i tempi, sono cambiati gli atteggiamenti nei confronti della politica, sono cambiati gli interlocutori e il panorama politico e partitico nel quale si muovevano le associazioni; le associazioni hanno perso quel ruolo d’intermediazione sociale, quindi tutto è un po’ diverso. Però è rimasto ciò che è reso bene da un’affermazione di Ugo Gregoretti: c’è un dna, credo, che in qualche maniera rende questo mestiere condiviso. Uno dei problemi di questo mestiere è la solitudine: davanti al foglio bianco dello sceneggiatore, di fronte a un nuovo progetto. E l’Anac è sempre stata la camera di compensazione di questo, dove tutte le difficoltà e anche i problemi che un autore deve affrontare venivano condivisi e in qualche maniera esorcizzati. Questo è rimasto. E c’è questa volontà di dire che, come negli altri sistemi europei, le risorse pubbliche dovrebbero essere ripartite in maniera equa e democratica.
Il mercato è al centro delle piattaforme di streaming, che ne fanno un oggetto di culto; le major concentrano più potere che mai; le sale indipendenti chiudono. Quali sono oggi, per l’Anac, le battaglie da combattere? Quali le sue posizioni?
Non si può negare che ci siano questi nuovi operatori… non voglio usare la parola player… però questi devono essere messi in condizione di rispettare alcune regole, prima fra tutte la fiscalità, il rispetto del diritto di autore; non si può pensare che operino al di fuori di questi binari che sono fondamentali. Invece mi sembra che per ora non sia trasparenza sul tipo d’incassi, di fruizione sui film e le opere che loro diffondono. Rispetto il diritto di autore, pagano un forfait alla luce delle loro autodichiarazioni. Tutta questa è una zona nebulosa che va regolamentata. Nel momento in cui le piattaforme opereranno in un sistema di questo tipo, e ci sarà la restituzione di risorse fiscali… fino a questo momento ci sarà sbilanciamento e un aumento fortissimo del potere e delle risorse che drenano dai nostri territori.
Insomma occorre che lo stato faccia la sua parte…
Occorre la regolamentazione.
Allora l’Anac aveva come interlocutore il Pci…
Una parte. Alcuni si rivolgevano al Partito socialista; Monicelli era legato al Partito socialista.
Il dibattito culturale al suo interno, feroce e appassionato, doveva necessariamente manifestarsi in scelte politiche. Oggi c’è una classe politica che risponde agli appelli dell’associazione?
Questo, dicevamo prima, è cambiato. Oggi meno, molto meno. C’è sicuramente un’attenzione al settore da parte della politica. Però non sempre le scelte fatte favoriscono la diversità culturale e l’equilibrato accesso da parte di tutti alle risorse pubbliche.
Durante la conferenza stampa, uno dei due sceneggiatori, Alessandro Rossetti, spiegava che il materiale raccolto è tantissimo. Il montaggio stesso del film è frenetico, a dimostrazione della mole di documenti da trattare. Cosa farete di tanto materiale? Quali sono le possibilità? C’è già qualche progetto a seguire?
Si potrebbe tranquillamente fare una serie. Ogni capitolo del documentario può essere sviluppato. Io ho dovuto fare una grossa sintesi, una grossa compressione; anche perché non diventasse noioso, lungo nel racconto. Dal punto di vista di contenuti, materiali di repertorio, creatività degli autori, c’è massima disponibilità. Bisogna vedere se si trovano interlocutori che finanziano un progetto di serialità su un argomento di nicchia ma molto interessante.