In sala dal 16 settembre Il silenzio grande di Alessandro Gassman con Massimiliano Gallo, Margherita Buy, Marina Confalone, Antonia Fotaras, Emanuele Linfatti.
Tratto da un’opera teatrale di Maurizio De Giovanni, Gassman traspone sul grande schermo una storia di conflitti familiari, ambientata nella Napoli degli anni’60. In occasione dell’uscita del film, presentato in anteprima a Venezia 78 a Le Giornate degli Autori, abbiamo incontrato il cast che ci ha svelato la genesi, i retroscena e la sintonia tra gli interpreti.
Alessandro Gassman introduce Il silenzio grande:
“Facendo il film, e anche mettendo prima in scena lo spettacolo teatrale, ci siamo semplicemente concentrati a raccontare una storia d’amore in una famiglia di persone che si vogliono molto bene, in un’epoca un po’ lontana, a metà degli anni’60.
Il desiderio era quello di raccontare, appunto dal titolo Il silenzio grande, quella serie di cose non dette che possono sempre capitare in una famiglia, o comunque in un gruppo di persone che si amano, che poi portano a questa distanza, quasi siderale, quasi incolmabile se non viene, di tanto in tanto, colmata.
Quindi, è un silenzio che può anche fare paura; vedendolo, facendo e poi montando il film, ci siamo resi conto che la l’opera di Maurizio De Giovanni, con il quale faccio una sorta di staffetta, perché lui scrive delle cose che nascono da una chiacchierata comune, e poi da quella mi vengono altre idee e mi permette di andare oltre quello che lui ha scritto e modificarlo ulteriormente con l’arrivo degli attori, può essere considerata un pezzo di teatro, un piccolo classico moderno.
Ho chiesto agli attori che cosa questi personaggi gli facevano venire in mente per lavorare di improvvisazione e poi girare il film. Essendo ambientato a Napoli (il film), è chiaro che mi viene in mente Eduardo (De Filippo) perché senza Eduardo, probabilmente non saremmo qui a parlare.
Quale è stata la sfida di portare sullo schermo un testo teatrale, modificando anche la struttura narrativa in maniera importante?
Alessandro Gassman: Teatro, Cinema, due arti molto distanti si spendono entrambi per ottenere lo stesso risultato: emozionare, raccontare delle storie e far sembrare chi è all’interno dei personaggi, credibile, vero; quindi emozionare o divertire, a seconda delle richieste della storia, del tipo di storia che raccontiamo.
Secondo me fare il film è stato più complesso; il cinema è un’arte più complessa. Il regista, al cinema, ha un’importanza centrale rispetto al teatro che è quasi interamente in mano agli attori. I risultati ottimi che abbiamo ottenuto con lo spettacolo dovevano essere cambiati e qui lo sforzo maggiore lo ha fatto Massimiliano Gallo che era protagonista anche a teatro, perché ha dovuto rinunciare a tutte le sicurezze e ai grandi risultati di risate e applausi a scena aperta che otteneva a teatro, per ridurre il personaggio e renderlo cinematografico.
Poi avevo per le mani due grandissime attrici che sono Marina Confalone e Margherita Buy e due giovani attori che hanno fatto due provini eccezionali. Scegliendo Marina, che nasce in teatro e poi diventa grandissima attrice anche al cinema, e Margherita, che è più un’attrice di cinema, era inevitabile che portassero nel gioco una profondità, una sottigliezza che era necessaria in questo film che vive più di ascolti che di parole.
Volevo far dimenticare i monologhi del teatro: qui si tratta di persone che entrano da sole in una stanza e confessano a una o due persone che non esistono più, quello che loro non gli hanno mai detto.
Quando un attore porta un’esperienza teatrale dentro il cinema, la prima cosa che deve cambiare è il timbro della voce, la dimensione sonora di se stesso. Come hai potuto trasformare, Massimiliano, il tuo personaggio portandolo da un modo di interpretare a un altro?
Massimiliano Gallo: L’unica soluzione era dimenticare completamente il percorso di costruzione del personaggio affrontato per uno spettacolo. Infatti, paradossalmente, anche a livello mnemonico, dovevo riprendere la memoria delle scene che facevamo il giorno dopo perché avevo completamente accantonato quella esperienza. Era l’unico modo per riproporre un personaggio che poi restituisse una verità sullo schermo. Io e Alessandro siamo andati in sottrazione su tutto ed era l’unica via che potessi scegliere.
Gli inserti onirici sono una scelta registica azzeccatissima…
Alessandro Gassman: Quelli fanno parte di quella staffetta con Maurizio Di Giovanni, di cui parlavo. Quello è il passaggio che mi appartiene. Le visioni, i sogni del protagonista sono cose che ho messo io. Questo film è importante per me perché è quello che riconosco di più tra i miei, è quello più vicino al mio gusto cinematografico anche come spettatore. Dei film vagamente rarefatti, dove non sia tutto esplicito. Mi piacciono anche i film dove c’è un velo onirico che ti permette di entrare e uscire dal realismo. Chiaramente il cinema si prestava di più…
Nel film c’è la figura centrale di un padre e, inevitabilmente, si finisce per accostare l’esperienza dei personaggi con la dimensione personale del regista.
Io parto dal presupposto che tutti i padri sono importanti; per ognuno di noi un padre è importante, quanto una madre, un figlio, sappiamo quanto possano essere utili o deleteri, dipende dalla fortuna che uno ha nella vita.
Questo non vuol essere un film autobiografico, a me serviva raccontare una famiglia diversa ovvero con una figura all’interno di straordinario talento, proprio per creare quel silenzio che scatena i monologhi di tutti gli altri.
Non sempre avere un talento straordinario, come quello che era mio padre, o Primic nella storia, aiuta a vivere meglio.
L’Italia che racconta nel film è un’Italia che non c’è più; in relazione al tema della comunicazione e del silenzio, oggi c’è un sovraccarico di parole ma, di fatto, non ci si ascolta più. Cosa pensa di questo aspetto?
Alessandro Gassman: Concordo, assolutamente. Questo film vuole essere una carezza, racconta l’Italia del 1965, poco prima del ’68 e dei grandi cambiamenti che sono arrivati. Dopo il boom economico, la ricostruzione, la seconda guerra mondiale e il ventennio fascista, apparentemente, questo era un Paese in cui si stava bene. Già sotto covavano altre cose ma, diciamo, la gente stava bene e soprattutto aveva la possibilità, non essendoci le nuove tecnologie, di parlarsi, di guardarsi, di abbracciarsi, di comprendersi, di ascoltarsi…
Il problema è che, sicuramente i social stanno cambiando rapidamente, l’hanno già fatto, la nostra società.
Secondo me, possono essere mezzi bellissimi, molto utili per alcuni versi e, allo stesso tempo, i regolamenti che li governano sono migliorabili perché creano spesso, in chi soprattutto non ha una forte preparazione o informazione, grande confusione, paura e anche violenza.
Quello che parte dalla rete, poi purtroppo sempre più spesso sta scendendo nella realtà di tutti i giorni, uscendo nella società civile; questo ci deve preoccupare molto, quindi è una richiesta di ascolto importante.
La scenografia è un elemento portante del film, compenetra nella narrazione. Come avete girato nella Villa?
Alessandro Gassman: La villa l’abbiamo trovata, era vuota. Vive soltanto l’ultimo proprietario che vive nella soffitta, non l’abbiamo mai visto e con Antonella Di Martino, la nostra scenografa, ho cominciato a lavorare sui materiali. L’abbiamo arredata completamente, abbiamo ridipinto le pareti e tutti i quadri, i mobili, i libri, tutto quello che vedete nella casa è un lavoro grandioso della scenografa. Sì, è stato bellissimo anche in questo senso: sempre chiusi in una bolla, in questa villa, tutto lì dentro, ho avuto una sensazione di grande protezione e concentrazione.
Alessandro, che rapporto hai con Maurizio De Giovanni?
Io nasco lettore di De Giovanni, sono appassionato di gialli e lui è uno dei più prolifici scrittori del genere in Italia. C’è una condivisione di vedute, di pensiero; è un uomo con il quale è molto facile parlare, sa tante cose, è vivace, è molto attento ai cambiamenti della società e, secondo me, la sua grandissima dote è quella di raccontare con grandissima efficacia le azioni e le creazioni tra individui, tra persone…questa è la cosa che mi emoziona di più, ci credo sempre.
Nei suoi libri viene voglia sempre di vedere cosa succederà a quelle tre, quattro persone che descrive. E poi è nata un’amicizia che continua e una stima reciproca e… mi lascia fare quello che voglio di quello che lui scrive, quindi questa è già una grandissima libertà, ne sono molto onorato.
Al cinema, c’è un ritorno grandioso della napoletanità. Cosa ne pensate?
Marina Confalone: Napoli è da sempre una città prolifica di artisti, lo stesso Di Giovanni. Questa cosa non deve sorprendere, dovremmo chiederci perché a Napoli succede questo, c’è da interrogarsi e capirlo. Napoli ha una grande tradizione teatrale, è un palcoscenico su cui tutti recitano.
Massimiliano Gallo: Napoli è una città unica, in tutti i sensi. Tutti ci prendiamo le colpe e i guai quando li dobbiamo raccontare, però dateci pure l’agio di raccontare che è una città unica, una città più lenta e capace ancora di ascoltare le persone, è capace di una grande empatia verso chi arriva, di una grande accoglienza e umanità.
Secondo me, quel tempo di ascolto e la grande intelligenza di vita fatta nell’accoglienza continua fa di quella città una fucina di talenti perché c’è più ascolto, più contaminazione culturale e anche musicale, è la città che si esprime in un certo modo.
Marina, Massimiliano, dentro questo film, il vostro parlare ha una costruzione dei ritmi, della sonorità e della musicalità con un equilibrio perfetto. Come ci avete lavorato?
Marina Confalone: Noi abbiamo trovato subito un’intesa per il nostro comune lavoro sul dialetto napoletano, fatto singolarmente perché non c’eravamo mai incontrati a teatro. Anche questo è un pregio dell’essere napoletani, perché avere questa lingua comune e questo retaggio di cose viste, di esperienze teatrali e di tutti i generi, ci fa stabilire immediatamente un gioco, un gioco teatrale.
I nostri maestri ci hanno detto che i rapporti da tenere a mente in scena sono tre: quello con il tuo personaggio, quello con l’attore con cui stai recitando e quello con il pubblico, tutti e tre contemporaneamente.
Massimiliano Gallo: Parlando di musica, è come se intonassi, mettessi a posto gli strumenti. Nel momento in cui senti un’intonazione di Marina, se vai sopra di due toni vuol dire che sei stonato. Avviene naturalmente, man mano che ti ascolti, senti il mood, il ritmo, la musica e la cadenza. Nella nostra mente, ogni scena ha un tempo musicale che non ci diciamo ma che riconosciamo man mano che avviene.
Come è stata l’esperienza sul set dei due giovani attori, Antonia Fotaras e Emanuele Linfatti?
Antonia Fotaras: Ho lavorato su un set meraviglioso, perché Alessandro è riuscito a creare questa atmosfera di serenità, professionalità, equilibrio, mi sono sentita sempre sostenuta.
Mi ha anche dato grande fiducia dato che sono un’attrice giovane e non è una cosa così scontata. Lavorare con un cast così spettacolare è semplicemente stata un’emozione bellissima e ho imparato tanto.
Emanuele Linfatti: Per riagganciarmi al tema della sintonia, è stata una cosa importantissima in questo film e penso la questione dell’ascolto valga, oltre che a teatro, anche al cinema…è stato ancora più difficile perché la sintonia dovevamo averla con una persona che non c’era.
Infatti, quando al provino, Alessandro mi disse questa cosa è stato traumatico. Penso che l’ascolto sia un tema importantissimo, di questo film in particolare, e ci siamo veramente potuti affidare a degli attori che avevano un’esperienza e una caratura straordinaria, quindi penso che abbiano facilitato il lavoro a entrambi.
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