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Biennale del Cinema di Venezia

A Venezia 78 il Premio Kinéo va a Karine Tuil

Consegnato a Karine Tuil il premio Kineo per il romanzo Le cose umane.

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Durante la 78esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, è stato consegnato il Premio Kinéo a Karine Tuil.

La scrittrice francese ha ricevuto il premio per il romanzo Le cose umane, da cui è stato tratto l’omonimo film – qui la recensione – in concorso a Venezia 78.

A Karine Tuil il premio Kinéo

Elisabetta Sgarbi, con la sua casa editrice La Nave di Teseo, ha pubblicato l’apprezzato romanzo e premiato l’autrice, nella cornice di Villa Ines al Lido di Venezia.

Le cose umane ha venduto oltre 350 mila copie solo in Francia, mentre è in corso di traduzione in dodici lingue.

La Sgarbi ha voluto sottolineare il valore di un festival come quello di Venezia, in cui il cinema e la letteratura hanno modo di incontrarsi, e l’importanza del premio Kinéo, per la prima volta (in vent’anni) assegnato a una scrittrice.

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La stessa Tuil è stata orgogliosa e felice di ricevere questo riconoscimento, che le ha permesso di vedere materializzarsi le sue due passioni, il cinema e la letteratura, appunto. Ha inoltre apprezzato che la sua editrice fosse anche una cineasta, così da trovare ancora più punti in comune con la sua arte e il suo lavoro.

Appassionata di letteratura del reale, la Tuil ha incentrato il suo romanzo su un tema delicato e attuale, quale un processo per stupro.

Prima del #MeToo – essendo stato scritto nel 2016 – tratta della cosiddetta zona d’ombra, evitando il manicheismo e dando, per la prima volta, un punto di vista alternativo. Il lettore viene posto nella condizione di giurato e l’aderenza ai fatti è ineccepibile.

La pellicola Le cose umane vede dietro la macchina da presa Yvain Attal, che dirige i bravissimi Charlotte Gainsbourg, Pierre Arditi e Mathieu Kassovitz.

La motivazione del premio

Di seguito la motivazione del Premio, scritta da Elena Stancanelli:

Nelle faccende umane il nodo del bene e del male è inestricabile. Basta avvicinarsi, osservare con maggiore attenzione: ognuno ha le sue ragioni. Buone, ottime, confutabili, di mediocre utilità… una montagna di ragioni possibili governa ciascuno dei nostri gesti. Il romanzo di Karine Tuil racconta con esattezza di questo nodo. E lo fa a partire dal luogo dove, per eccellenza, le ragioni devono essere prodotte: un processo. Le prime pagine non sembrano neanche appartenere a un romanzo. La sua aderenza ai fatti che vediamo svolgersi, i riferimenti alla realtà, producono l’impressione che si tratti di un’inchiesta. La giovane Claire Farel, che ritroveremo una ventina d’anni dopo come una delle protagoniste, è stagista alla Casa Bianca insieme a Monica Lewinski – non ho bisogno di spiegarvi chi è – e Huma Abedin, che sarebbe diventata la più stretta collaboratrice di Hillary Clinton e moglie di quel Anthony Weiner che bruciò la sua carriera politica per il vizio di mandare foto di erezioni alle sue amanti. Questo è il calco, da qui, da questo big bang dell’Occidente si origina la vicenda de Le cose umane. Tutto esplode a partire da un unico detonatore: il sesso. Claire diventa madre di Alexandre, Alexandre si mette nei guai per quello che la vittima denuncia come uno stupro. Intorno le famiglie si disintegrano e l’eros è padrone. “Al sesso e alla lusinga della devastazione, al sesso e al suo impulso selvaggio, tirannico, irrefrenabile, Claire aveva ceduto come gli altri, un colpo di testa, in uno slancio irresistibile, buttando all’aria tutto ciò che aveva pazientemente costruito, cioè una famiglia, una stabilità emotiva, un punto fermo durevole.” 

Il romanzo, sul cui sfondo scorre ovviamente la cultura del #Metoo, guarda e non giudica, inventa e incastra storie di uomini e donne travolti dal desiderio da una parte e dalla paura dall’altra. Immobili, sotto la spinta di due correnti opposte. Credibile fino al dolore di una nostra deforme immagine riflessa nello specchio, che vorremmo dimenticare, Le cose umane ha dentro Philip Roth e George Bataille, l’angoscia dell’invecchiare, l’ottuso rifugiarsi nella claustrofobia dei riti anche religiosi, l’ossessione della solitudine, ma è soprattutto un romanzo appunto dell’umano, nella sua declinazione contemporanea: scomposta, fragile finale.

“Si era spesso delusi dalla vita, da se stessi, dagli altri. Si poteva tentare di essere positivi, qualcuno avrebbe finito con lo sputarti in faccia la sua negatività e la positività si annullava. Di quell’equilibrio mediocre si crepava, ma lentamente, a singhiozzo, con pause rassicuranti che offrivano una breve euforia: una gratificazione qualunque, l’amore, il sesso… dei flash, la certezza di essere vivi. Era nell’ordine delle cose. Si nasceva, si moriva. Tra l’alfa e l’omega, con un po’ di fortuna, si amava, si era amati. La cosa non durava, prima o poi si finiva con l’essere sostituiti. Non c’era da ribellarsi, era il corso invariabile delle cose umane.”

Qui il sito della Biennale