Guled e Nasra vivono con il figlio Mahmad a Gibuti, in una bidonville. Conducono un’esistenza dignitosa e punteggiata da piccole gioie quotidiane: bere il tè con gli amici dopo il lavoro, giocare a guardie e ladri tra i vagoni di una stazione ferroviaria in disuso, imbucarsi alla festa di matrimonio di una famiglia ricca portando in dono una capra al guinzaglio…
Sarebbe una famiglia felice se non fosse per la povertà e per la salute – due cose che in Africa non legano per niente. Infatti, la bella moglie del becchino soffre di una infezione renale che va aggravandosi malgrado gli antibiotici e le cure amorevoli di Guled. L’unica soluzione è asportare il rene malato, ma l’intervento costa caro: cinquemila dollari sono una cifra superiore a quanto tu possa immaginare di poter guadagnare in una vita intera, se il tuo strumento di lavoro è una vanga con cui scavar fosse alla bisogna e per pochi franchi alla volta.
The Gravedigger’s Wife l’uomo con la vanga in spalla
Guled si risolve allora ad affrontare il lungo viaggio a piedi fino al villaggio d’origine, dal quale peraltro era stato allontanato in malo modo per aver fatto saltare il matrimonio combinato cui era destinata Nasra. E infatti l’accoglienza che lo attende non è certo di comprensione, tanto meno di amore familiare. Reclama il gregge che gli era destinato in via ereditaria, ma visto che si era trasferito in città le capre sono state assegnate al fratello, con la sanzione del consiglio dei saggi del villaggio.
Guled, disperato, ricorre all’abigeato, ma al villaggio non la prendono bene. Del resto, negli aridi altopiani del Corno d’Africa, con rade acacie spinose a dare un’ombra miserevole a chi si avventuri per i sentieri pietrosi, possedere qualche ovino può fare la differenza tra la vita e la morte. Quest’ultima sarà il destino di Guled?
The Gravedigger’s wife: sogni da affidare
Khadar Ayderus Ahmed, nato a Mogadiscio ma di nazionalità finlandese (la produzione è infatti nord-europea), dirige questa african story con discrezione e sobrietà, seguendo lo stile narrativo asciutto ma arguto proprio della cinematografia del suo continente.
Presentato alla Semaine de la Critique del 74° Festival di Cannes, questo suo primo lungometraggio – il titolo è traducibile con “La moglie del becchino” – offre uno sguardo empatico sulle sorti di un’ umanità che affida i propri sogni, non solo ai voleri di una Provvidenza imperscrutabile, ma anche alla determinazione di chi non ha nulla da perdere all’infuori degli affetti più stretti.