CRONACHE DA KOSMOGRAPH, terzo e ultimo episodio: “Quarto potere, ma facciamo anche sesto”. «Il benemerito commendator Carlo, aveva tutto: una residenza colossale, degna dei favolosi racconti di Marco Polo***; ma soprattutto un impero mediatico. Eppure, nonostante tutti i suoi possedimenti (tra i quali annoverare anche abitazioni varie, industrie, negozi e quant’altro), il protagonista di questa storia (che poi è una storia sognata; per così dire: ricostruita su una serie d’indizi liberati dall’inconscio) si sentiva solo, tremendamente solo: anche con due matrimoni alle spalle; anche con un impero di asserviti». Rubrica a cura di Simone Ghelli.
Ogni mattina, svegliandosi, ricordava di aver sognato un frammento precedente della sua vita; ma il ricordo era confuso, reso incerto da quel segnale che occupava immancabilmente l’ultima immagine del sogno (e quindi la prima del suo ricordo): l’immagine di un cartello sul quale era scritto: «Vietato l’ingresso».
Carlo (soprannominato sin dall’infanzia “cane della foresta”**: Cane perché mordeva per farsi largo nel mondo degli affari, anche se prima mostrava la zampa con fare cordiale; della foresta perché d’indole solitaria, senz’altro a causa dell’abbandono da parte dei genitori), il benemerito commendator Carlo, aveva tutto: una residenza colossale, degna dei favolosi racconti di Marco Polo***; ma soprattutto un impero mediatico. Eppure, nonostante tutti i suoi possedimenti (tra i quali annoverare anche abitazioni varie, industrie, negozi e quant’altro), il protagonista di questa storia (che poi è una storia sognata; per così dire: ricostruita su una serie d’indizi liberati dall’inconscio) si sentiva solo, tremendamente solo: anche con due matrimoni alle spalle; anche con un impero di asserviti. Poteva avere tutto, a parte una cosa, quell’unica cosa che lo faceva sentire come un minuscolo cristallo di neve: un bocciolo di rosa**** che tormentava le sue notti; il ricordo di una sensazione che giunge da un passato remoto. Lo paragonarono ai più grandi condottieri, ai più odiati dittatori; eppure, nel sogno sembrava privo di potere, incapace di prendere come nella vita reale. Ogni notte, dopo un pezzo del suo passato, sognava questo simbolo dell’amore puro e spirituale – la rosa è bianca, anche perché il commendatore sognava in bianco e nero – al quale poi sopraggiungeva il divieto: niente di simbolico, ma puramente connotativo si direbbe; indicativo della sua vita materiale e da materialista.
Anziché lasciarsi andare alla deriva, farsi prendere dallo sconforto e dalla depressione, il commendatore reagì però con l’unica arma conosciuta: l’intraprendenza. Egli fondò così una propria emittente televisiva, nella speranza di poter ammutolire quell’unica immagine sotto un cumulo di altre; impresa che gli riuscì per altro in maniera eccellente, come al solito, ma “solo” per quanto riguardava il tornaconto economico e il ritorno d’immagine – anzi, si può dire che sia stata a tutti gli effetti fallimentare in rapporto allo scopo di partenza; la televisione ebbe infatti un potere piuttosto imprevedibile: quello d’impoverire l’immaginario del commendatore, che faticava sempre più a ricordarsi del suo passato anche in sogno, ma non del bocciolo di rosa, in compenso; né di quel divieto che lo faceva svegliare sempre più imbestialito, lui che aveva sempre potuto tutto. Si buttò per giunta anche in politica, e contro ogni previsione – anche di chi gli aveva scritto la sceneggiatura: i famosi ghost writer che fabbricano discorsi – riuscì persino a vincere le elezioni: in pratica un plebiscito. In breve, non ebbe neanche più il tempo di dormire (e la stampa estera su questo ci andava a nozze: sul fatto che avesse sempre le occhiaie), ma l’immagine maledetta percorse altre vie per trovarlo; cominciò a presentarglisi a occhi aperti: durante i congressi o nel bel mezzo di una conferenza stampa. Il commendatore arringava la folla, scalava le marce del suo discorso, e improvvisamente eccolo là: il bocciolo di rosa, di un candore imbarazzante in confronto ai campioni d’umanità che lo circondavano. Eppure, egli non era mai stato un praticante, neppure un credente a dire il vero. Concedeva il necessario alla Chiesa, come gli altri del resto: manteneva pulita l’etichetta; ma la sua vita attuale era macchiata di altri colori, non certo il bianco (e per questo, per forza, la matrice doveva provenire da un passato remoto: dall’infanzia negata e censurata).
Insomma, nonostante il quarto e il quinto potere, il commendatore andò in cerca persino di un sesto, convinto così di poter scacciare il chiodo piantato nella sua testa. Finì così col diventare una vera e propria ossessione, la sua: non quella del bocciolo, bensì dell’ennesimo potere. Non riuscì a scovarlo, purtroppo per lui, e neanche a risolvere l’onirico enigma. Si sa soltanto che il giorno del suo funerale brillò una rosa bianca: solitaria, in mezzo alle corone di fiori portate in dono dal suo esercito di tirapiedi. Il biglietto recitava un’ultima, spietata sentenza: «Sesto potere».
* Al primo film di Orson Welles (1941), seguì infatti Quinto potere (1975)di Sidney Lumet. Il riferimento al sesto potere gioca quindi con una celebre battuta di Erich Von Stroheim, al quale si narra che l’allora aiuto regista John Ford disse con entusiasmo: «Maestro, Lei è dieci anni avanti». Il regista austriaco lo guardò e rispose: «Facciamo anche venti».
** Evidente quanto grossolano gioco di parole con Charles Foster Kane.
*** Nel Milione si parla di una città favolosa su cui regna Coblai Kane (essa ha come nome Xanadù, che pare fosse l’originale di Candalù, come divenuta poi nel film).
**** Rosebud, nella versione originale (che in italiano è diventato Rosabella); mentre l’uso della neve si riferisce alla scena in cui il protagonista lascia cadere la palla di vetro, che s’infrange a terra: non a caso si dirà in seguito che la rosa è bianca.
Simone Ghelli
Scrivere in una rivista di cinema. Il tuo momento é adesso!
Candidati per provare a entrare nel nostro Global Team scrivendo a direzione@taxidrivers.it Oggetto: Candidatura Taxi drivers