La storia e la contingenza mondiale
Nessuno saprà mai esattamente quanta quota del vasto interesse mondiale suscitato da The Last Dance sia da addebitarsi alla contingenza di una pandemia che ha costretto a casa mezzo mondo, con un rinnovato e disperato bisogno di contenuti in streaming, non ultimi quelli offerti da piattaforme come Netflix o Prime Video.
Di certo, però, si può affermare che la materia e i personaggi trattati da questa serie cinedocumentaristica prodotta da Netflix, Espn Usa e lo stesso Jordan tocca direttamente la carne viva dei ricordi di tutta una generazione, persino tradizionalmente non interessata al basket, oltre che l’interesse e la curiosità di chi vorrà capire qualcosa in più di una pagina di storia sportiva e di una stella assoluta.
The Last Dance: non una semplice biografia
Cominciando questo articolo, però, precisiamo subito che non mi adopererò in una sorta di sinossi né, tantomeno, vi diremo come si svolgono i fatti, arcinoti o se, The Last Dance rappresenti una vera e propria biografia – di cui manca, se non il rigore delle fonti, il dovuto distacco del narratore dai personaggi narrati. O se, addirittura, si tratti di una sorta di agiografia, poiché la divinità rappresentata del nostro eroe nell’Olimpo del basket mondiale mai prescinde, durante tutta la serie, dalla sua involontariamente ostentata fisicità.
Un diario, non poche volte autentico
The Last Dance è un pezzo di diario. Raccontato attraverso le testimonianze non poche volte sincere (il ché non significa obiettive) dei diretti interessati, ai quali la figura di Micheal Jordan, sebbene sovraordinata nella pagina storica che rimane anche fuori dal racconto qui in esame, funge da raccordo e sintesi.
Un’epopea irripetibile, alla quale peraltro sembrava di aver già assitito con l’interminabile sfida tra il Magic Johnson dei L.A. Lakers e il Larry Bird dei Boston Celtics di qualche anno prima dell’esordio di Jordan.
Jordan, Nba, due fenomeni improvvisamente globali
In questo diario, peraltro mai troppo ammantato della retorica che sembra pervadere ogni racconto spettacolare d’oltreceano, è proprio la scena Nba a cavallo tra la fine degli anni ’80 e quella degli anni ’90 che si racconta e confessa insieme allo stesso Jordan. Il perché di un destino nient’affatto scontato di un rookie classe ’63 e di come la sua esplosione cestistica e d’immagine abbia trascinato tutto un movimento, di colpo cresciuto anche all’estero, passando da sport per appassionati e specialisti di cose “amerikane” a spettacolo assoluto, di massa e globale.
Il titolo, l’ultimo giro, l’inzio e la fine del racconto
Inutile, dunque, soffermarsi su dettagli che facciano perdere di vista come ci si troverà di fronte a un racconto più semplice e senza fronzoli di quel che si potrebbe sospettare attorno al quindicennio più strabiliante della storia dello sport americano.
E d’altronde lo stesso titolo pone da subito le basi programmatiche del discorso. The last dance fu, infatti, l’ultimo dei titoli che il coach dei Chicago Bulls, Phil Jackson, era solito assegnare alle varie stagioni che la sua squadra avrebbe affrontato.
Tutto, dunque, comincia nel racconto proprio dalla fine, per fare un giro enorme, avanti e indietro, tra le varie stagioni, dentro e fuori il rettangolo di gioco e dalla vita di Jordan e pochi altri (Pippen, Rodman, Kerr). E l’ultimo ballo altro non sarebbe stato che l’ultomo giro di quella triplice esperienza: i leggendari Chicago Bulls, una Nba stellare, il cestista e forse lo sportivo più grande (e ricco) della storia.
Ninny Aiuto