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31° Trieste Film Festival: omaggio a Gerhard Gundermann. Il popolare cantautore della DDR protagonista di un documentario e un film di finzione

Gundermann di Andreas Dresen e Gundermann Revier di Grit Lemke, per ricordare la figura del compianto, controverso “Gundi”

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Haupstadt der DDR

Live in Mosca Live in Budapest. Live in Varsavia. Live in Praga. Live in Sofia. Live in Pankow. Haupstadt der DDR, cantava Giovanni Lindo Ferretti nei ruggenti anni di attività dei CCCP. E magari lo canta ancora oggi in versione solista. Ma la verità è che senza sconfinare nel punk nostrano di fermenti musicali autoctoni ve n’erano pure, nell’allora Germania dell’Est. Tra tutti merita una menzione Gerhard Gundermann, cantautore precocemente scomparso alla fine degli anni ‘90: il popolare “Gundi”, detto da alcuni “il Bob Dylan delle miniere”, un segno nell’immaginario collettivo tedesco l’ha lasciato senz’altro. Sia per i suoi poetici brani musicali che per quel ruolo pubblico talora polemico e divisivo. Bene ha fatto in ogni caso il 31° Trieste Film Festival a rendergli omaggio.
Tutto ciò è avvenuto qualche settimana fa al Teatro Miela, nel corso del focus ribattezzato Time Will Tell (1990 – 2020: trent’anni dalla riunificazione tedesca). Di tale iniziativa avevamo già parlato a proposito del truculento e beffardo cult movie di Christoph Schlingensief, The German Chainsaw Massacre (Das Deutsche Kettensägenmassaker, 1990). Ne riparliamo volentieri ora per porre in evidenzia il duplice tributo cinematografico al compianto musicista.

Il Bob Dylan delle miniere

Due infatti sono le opere cinematografiche a lui dedicate, che abbiamo potuto vedere in quel di Trieste: Gundermann (2018) di Andreas Dresen e Gundermann Revier (Coal-Country Song Gundermann, 2019) di Grit Lemke. Ovvero un lungometraggio di finzione e un documentario prodotti in Germania nell’arco di un biennio, a testimoniare il persistente interesse dimostrato nei confronti di tale figura dalla società tedesca, a vent’anni circa dalla sua morte. Sulle piccole differenze tematiche e di approccio tra i due film torneremo più avanti. Per ora ci piace rimarcare che entrambe le visioni hanno rappresentato una traccia valida, nel percorso che ci ha portato a recuperare dagli annali e guardare con affetto un personaggio così fuori dagli schemi, la cui musica nonostante l’apparente spigolosità della lingua tedesca conserva genuino pathos e una tenue malinconia.
Il Bob Dylan delle miniere, per l’appunto; che, all’apice del successo, del vero Dylan e di Joan Baez riuscì persino ad aprire i concerti. Ma vi sono diversi altri aspetti della sua biografia e di una personalità testarda e generosa che emergono nei due film: dall’orgogliosa decisione di non lasciare il lavoro nell’industria mineraria della DDR (con punte di stakanovismo davvero ragguardevoli) alle critiche sempre costruttive nei confronti di tale apparato produttivo, dai risvolti agrodolci della vita privata a quel periodo di profondo turbamento interiore, che ebbe inizio quando i media scoprirono e divulgarono informazioni relative alla collaborazione da lui avuta con la STASI; un’accusa infamante, questa, che generò accanite discussioni tra fan e detrattori del cantante, accomunandone il destino a quello di altre personalità della cultura e dello spettacolo dell’ex Germania Est, sul conto delle quali dopo la caduta del Muro si erano registrate analoghe rivelazioni.

Documentario e finzione

Tutti questi aspetti sono approfonditi con grande passione nel documentario di Grit Lemke, una miniera (qui è proprio il caso di dirlo…) di informazioni e di testimonianze sul discusso cantautore, del quale emerge in modo nitido pure la formazione giovanile. Forte anche il legame con l’ambiente proletario nel quale è cresciuto. Dall’intreccio di legami famigliari, rapporti d’amicizia e simbiosi col territorio trae poi forza l’intenso, toccante epilogo di tale lavoro cinematografico.
Il Gundermann di Andreas Dresen parte con ambizioni probabilmente più alte, ma non riesce a soddisfarle del tutto, almeno secondo noi. Colui di cui stiamo parlando è di sicuro tra i registi tedeschi più in vista della sua generazione, lo testimoniano titoli premiatissimi come Catastrofi d’amore (Halbe Treppe, 2002), Settimo cielo (Wolke 9, 2008) e Halt auf freier Strecke (Stopped on Track, 2011) Qui attraverso una complessa struttura ad incastri ha cercato ugualmente di restituire i differenti volti di una personalità poliedrica, ponendo allo scoperto il versante umano, quello artistico, quello politico, quello affettivo. Ecco, forse è proprio l’eccessivo spazio concesso nell’economia del racconto a certi travagliati trascorsi sentimentali del protagonista a rappresentare un peso eccessivo, per l’articolata architettura diegetica di un simile biopic. Non è affatto casuale, quindi, che le immagini più stranianti e a loro modo struggenti restino, qui come nel documentario, quelle di Gundermann assorto sulla potente scavatrice, laddove un lavoro tanto gravoso riusciva ad essere addirittura fonte di ispirazione, per i testi così intimi e vibranti delle sue canzoni.

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