Magari un giorno si arriverà a dirlo, quando l’antipatia a priori verso Michele Placido sarà sbollita, quando fra qualche anno il cinema di genere non sarà ancora risorto, nonostante le sfuriate di Tarantino e la goliardia di Nocturno. Si arriverà a dirlo e, come al solito, sarà già tardi. E, allora, ciò che avrebbe potuto essere la semplice valutazione storica si tingerà dei barbagli accecanti – termini altisonanti, esagerazioni forzose – della rivalutazione. Romanzo criminale, tratto dall’omonimo libro di Giancarlo De Cataldo, è uno dei pochi film italiani “importanti” del primo decennio del nuovo secolo, e mi accorgo di essere stato stretto. Insieme ci metterei l’esordio di Kim Rossi Stuart, che anche da qui in fondo viene, qualche Sorrentino, l’opera omnia di Matteo Garrone, e poco più. Ho stretto anche qui, me ne rendo conto. A conti fatti, Romanzo criminale è un film più importante che bello, ed è questo che finalmente mi sembra argomento prezioso. La regia di Placido non va sempre a nozze con l’ambiziosa grandeur – scommessa vinta – della messinscena, è vero; l’insieme del cast non è del tutto soddisfacente, si ammette; alcuni passaggi convincono meno, giusto. Tutto vero, ed eppure non cambia niente, non si è meno convinti. Il film di Placido, nelle sue due ore e mezza in cui si svolge, racconta l’Italia come forse nessun altro film del nuovo millennio, Il caimano compreso: chi eravamo, chi siamo, addirittura – sposando gli sceneggiatori, e Placido stesso, le teorie di Vico – chi saremo. Racconta, e narra, e illustra le illusioni, la loro fine, e pure le disillusioni. Eppure non fa Storia, non ne vuole fare, e si limita a tracciare e connettere storie: dalla combinazione di minime unità stilistiche nasce la frase. Romanzo criminale vive di minuzie per arrivare, nel finale, ai massimi sistemi. Ci arriva, restando sul filo della credibilità e dell’epica, perché prima ha costruito attorno il suo senso, il significato profondo di quel punto d’approdo. Se non dimenticheremo facilmente il finale, rosseggiante di cupezze, in cui l’enigmatico e al contempo fin troppo lampante Bertorelli vaticina la profezia dell’Apocalisse, è perché la costruzione drammaturgica di vicende private, intrecci pubblici e personaggi è stata credibile. Non solo: Romanzo criminale, chissà quanto avendo in mente la lezione a-politica di Sergio Leone (ma c’è anche Scorsese), esagera e, paradossalmente, indovina la carica di epica, di melodramma, di aria internazionale (non solo perché distribuisce la Warner Bros), spazzando via ogni possibile congettura di film ruffiano, impersonale e maldestro. Questo, se si vuole, è il vero, grande, unico cinema di genere. Quello di Robert Aldrich, in America; di Jean-Pierre Melville, in Francia. La funzionalità di abbassare il tono di documento a tesi al privato è scelta indovinatissima: i flashback agiscono in maniera catartica, spiegando “banalmente” le ragioni profonde, il background, gli umori dei caratteri. La banalità dell’epica omerica. Tutto è stereotipo e, proprio per questo, tutto è potentissimo, viscerale. Tutto è già visto (l’omicidio a freddo di Rossi Stuart) e, proprio per questo, prepotentemente nuovo.
Roberto Donati