La scena si apre su una tristezza che si specchia nel mare. La tristezza del benessere inconsapevole, degli agi e dell’opulenza alto – borghese e mostra un folle esperimento di un padre stanco dell’insoddisfazione continua dei due figli. L’esperimento consiste nell’andare con i due bambini e la moglie in vacanza portando con sé un bambino povero, da lui chiamato Abdul. Il bambino non potrà partecipare in nessun modo alla vacanza, né socializzare con i bambini; serve soltanto come “esempio” agghiacciante, strumento umano passivo per insegnare ai figli quanto siano fortunati a vivere “sul lato bello dell’ineguaglianza sociale.”
Il cortometraggio Un tipico nome da bambino povero di Emanuele Aldrovandi è una cinica rappresentazione, da un lato, dell’insoddisfazione continua dell’attuale nuova generazione e, dall’altro, della frustrazione isterica dei genitori moderni, alla continua ricerca di approvazione da parte dei figli.
“Papà, perché Abdul è povero?“, chiede la bambina ad un certo punto, e il non racconto prosegue fra stereotipi voluti e personaggi che attraversano lo schermo senza lasciare traccia. Le due ombre sono la moglie, per la maggior parte del tempo in tacito accordo col folle progetto del marito, e il bambino africano ( chiamato Abdul perché è il tipico nome da bambino povero), un’entità indefinita e senza voce ma che acquista una concreta e straordinaria sostanza in un finale intriso di malinconico disarmo ma assoluta armonia.