Con L’età giovane, premiato a Cannes per la migliore regia, Jean-Pierre e Luc Dardenne tornano a tre anni da La ragazza senza nome e confermano ancora una loro particolarità: quella di rispettare tempi lunghi per lavori meditati, attenti, sia nella scrittura che nella regia. Il titolo francese, Le jeune Ahmed, vuole sottolineare, sì, l’età acerba del protagonista, ma anche il suo nome, perché in effetti Ahmed è sempre al centro della scena, fin dalle prime inquadrature. I fratelli Dardenne, lo sappiamo, amano lavorare con soggetti adolescenti o giovanissimi, ma in questo caso era quasi obbligatorio farlo. Si parla di fanatismo religioso e l’età così bassa di Ahmed lascia spazio alla speranza di un ripensamento, anche se per tutto il racconto di aperture sembra non ce ne siano.
La tensione così è sempre molto alta fin da subito (tanto che vengono aboliti anche i titoli di testa), dall’incipit, in cui vediamo il ragazzo correre sulle scale, fino all’ultimo fotogramma. Altri film dei due registi iniziano con corse affannose: Rosetta e L’enfant, per esempio, a indicare fughe da una realtà ostile, ingiusta, ancor di più se riservata a giovani. Il quindicenne Igor sul suo motorino ne La promessee Cyril sulle due ruote ne Il ragazzo con la biciclettasi ostinano a cercare la via per la consapevolezza, per un’identità più autentica che il contesto sociale vorrebbe negargli.
Quando conosciamo Ahmed, nulla sappiamo del percorso che l’ha condotto fin qui. Solo che fino a un mese fa giocava alla playstation con il fratello, mentre ora dedica tutto il suo tempo alla preghiera, invaghito del cugino, che ha dato la vita alla causa e che l’imam gli mostra come modello. Non vuole dare la mano alla maestra che tanto ha fatto in passato per la sua dislessia, men che meno leggere il Corano insieme a lei. È già radicalizzato, Ahmed, quando lo incontriamo la prima volta, plagiato da un adulto manipolatore e refrattario a tutte le persone che vogliono il suo bene: la madre, l’insegnante, gli educatori. E, nonostante il controllo emotivo del protagonista, che a tratti rasenta l’autismo (sguardo sempre abbassato, postura raccolta), e la tecnica dei Dardenne (con i loro piani-sequenza volutamente imperfetti, lo stile più che mai disadorno), l’inquietudine dello spettatore è alle stelle, nell’attesa che qualcosa intervenga a svegliare Ahmed dalla maledizione dell’integralismo nel quale è piombato, non si sa come, né perché.
Divieti
Intorno a lui, non c’è il dissesto economico o sociale nel quale vivono gli altri eroi giovani dei nostri autori, alibi che in questo caso sarebbero parsi ingenui e che avrebbero spiegato sbrigativamente il presente, con un determinismo pericoloso. Manca la figura paterna, è vero, ma la scelta dell’imam come sostituto è tutta di Ahmed, il quale risolve, in una volta sola, tutte le ambivalenze del suo passaggio esistenziale. La goffaggine del corpo è messa a tacere dai divieti che riguardano la fisicità, gli impulsi sessuali sublimati dai mantra recitati che rassicurano, i sensi di colpa verso gli adulti, dai quali si deve allontanare per crescere, mascherati dalle prediche sulle loro abitudini troppo laiche. Ai suoi occhi tutto si semplifica: la madre un’alcolista, la sorella una prostituta, l’insegnante, che vuole avviare un corso di arabo moderno, blasfema. Anche col padre sarebbe stato in disaccordo, perché è (o era?, di lui non abbiamo notizie) troppo debole, altrimenti avrebbe fatto indossare alla madre il velo. Due estremismi, quello religioso e quello adolescenziale, sclerotizzati in una rigidità che nulla sembra poter scalfire.
Si renderà conto, Ahmed, che la morte non è una puntura di zanzara come diceva orgoglioso il cugino? Sarà un percorso da cui non si vede via d’uscita, e di questa immobilità i Dardenne sono assai consapevoli: “Quando abbiamo iniziato a scrivere, non immaginavamo che avremmo progressivamente creato un personaggio così chiuso in se stesso e imperscrutabile, capace di sfuggirci fino a tal punto di lasciarci privi della possibilità di costruire una struttura drammatica per recuperarlo, per farlo uscire dalla sua follia omicida. Eppure, potrebbe essere diversamente? Come arrestare l’impetuosa corsa verso l’omicidio di questo giovane fanatico, impermeabile alla bontà e alla gentilezza dei suoi educatori, all’amore di sua madre, all’amicizia e ai giochi romantici della giovane Louise? Quale potrebbe essere la scena, quali potrebbero essere le inquadrature che permetterebbero di filmare questa metamorfosi e di sconvolgere lo sguardo dello spettatore immerso nella notte di Ahmed, vicinissimo a ciò che lo possiede e dal quale potrebbe finalmente liberarsi?”.
Scelgono allora un finale a effetto, un epilogo che fa discutere, ma che noi riteniamo convincente, d’accordo con quanto i registi affermano sull’impossibilità di fare uscire, se non in maniera brusca, l’adolescente Ahmed dalla sua ossessione. Per il tema scottante, tutto il film alla sua uscita è stato al centro di polemiche e di alcuni giudizi critici molto accalorati.
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