Per una volta, il flame di una nuova serie centra l’obiettivo: perché Unbelievable è davvero il serial che mette in crisi il punto di vista maschile. La storia è tratta da avvenimenti reali: Marie è un’adolescente che denuncia di essere stata stuprata. Ma la conduzione delle indagini, ad opera di due detective uomini e non particolarmente attenti e sensibili, la porterà a dubitare di se stessa, aprendo la strada per un futuro oscuro.
È il dolore della vittima l’oggetto dello studio di Unbelievable, creata da Susannah Grant, dove a essere incredibile è realmente quel rimescolio emotivo di fronte a fatti troppo inverosimili per essere reali, ma che sono invece fin troppo reali per essere inverosimili. I dieci episodi si dividono in due segmenti narrativi: il primo riguarda Marie e la sua odissea per uno stupro subito e non punito, il secondo si incentra invece su una coppia di investigatrici, che di per sé sarebbe già inedita, in un immaginario seriale dove l’elemento femminino è sempre e solo declinato all’interno dei soliti canoni: Unbelievable invece quest’immaginario lo ribalta, non solo dando corpo a una sorta di True Detective al femminile, ma innestando nel corso del suo racconto tracce di disagio per come il mondo in cui viviamo, quello reale, sia incredibilmente dominato da un’ottica mascolina che porta ognuno di noi, in maniera impercettibile, a deviare dalla retta via.
Unbelievable corre incessantemente tra quelle due storie: fa la spola tra la rassegnazione della vittima e la tenacia di chi insegue il colpevole, al centro un sistema disattento e un’umanità impotente. E anche lo stile è equamente diviso tra drama e crime, senza nessuna concessione all’easy telling ma costantemente sul filo di una tensione emotiva palpabile, una fascinazione narrativa che aggancia l’attenzione dalle prime immagini e la porta con sé fino alla fine. I personaggi maschili rimangono quindi sullo sfondo, relegati a fare da contorno a una storia che si concentra sulla fede e sulla disperazione: ma la regia è sempre attenta e sensibile nel costruire credibilità, nel dare tridimensionalità ai personaggi senza mai dimenticarne il ritmo, il respiro, l’ampiezza emotiva.
Quello che però alla fine resta, dopo gli otto episodi, è un senso di dolore silenzioso e impotente, uno spaesamento civile che non rinuncia a instillare sensi di colpa nello spettatore, per porre incessantemente domande, anche senza risposta, ma che con piccoli flash riportano un po’ di luce nel buio.