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Conversation

Conto su di me: conversazione con Lidia Vitale, protagonista di Tulipani – Amore, Onore e una Bicicletta

Indipendente e volitiva, dentro e fuori lo schermo, Lidia Vitale è l'esempio di un femminile pronto ad accogliere e dare seguito alle istanze di cambiamento del nostro tempo. Per esempio, continuando a conquistarsi ruoli di qualità, come quello affidatole dal regista premio Oscar Mike Van Diem in Tulipani. Con lei abbiamo parlato di vita e di cinema e della bellezza di essere la madre della sua migliore collega

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Partiamo dagli anni della formazione.

Perché sono finiti (ride, ndr)?

Per certi aspetti non finiscono mai, però di sicuro hanno un inizio e forniscono una visione del mondo difficile da abbandonare. Tu ti sei laureata in sociologia con una tesi sui sistemi di produzione degli audiovisivi in Australia per poi iniziare un percorso di studi ad Amsterdam.

Si, sono stata in Olanda più o meno un anno e mezzo perché mi sono specializzata in comunicazioni. Mi sento cittadina del mondo a tutti gli effetti, cioè dove vado metto dimora cercando di prendere il meglio che quel posto mi può dare. Non è un caso che sia andata ad Amsterdam: credo che il connubio tra la cultura olandese e quella italiana sia il non plus ultra, la loro civiltà unita alla nostra creatività e è una binomio pazzesco.

Successivamente arrivi al cinema iniziando come assistente di produzione per la Palomar di Carlo Degli Esposti. Una scelta che secondo me rivela l’eclettismo dei tuoi interessi nei confronti della macchina cinematografica.

La verità è che nessuno mi voleva, né al cinema né al teatro e dovendo guadagnare per me e Blu (Yoshimi, figlia e a sua volta  attrice, ndr) che era ancora piccola, ho scelto di fare una cosa che mi interessava. La cosiddetta macchina del cinema del faceva al mio caso perché da sempre mi interessa l’intero processo creativo. Produrre mi piace tanto quanto fare regia, amo tutto del set, il prima, il durante, il dopo. D’altronde per realizzare dei capolavori c’è bisogno dell’apporto di ogni singola componente.

Tra l’altro mi sembra che questo contenga in sé una visione del cinema in cui non si perde di vista lo spettatore e il fatto che oltre a essere di riferimento per chi lo fa il film riesca a parlare anche al pubblico.

Assolutamente. Poi guarda, io sono buddista da trenta anni, quindi nasco da giovanissima con una filosofia forte alle spalle in cui lo scopo dell’arte è illuminare i cuori della gente comune. Dicono che mi accanisco troppo cercando di cambiare il sistema, ma non ne posso fare a meno, perché io credo davvero che l’arte possa riuscire a far vedere qualcosa che si riesce a percepire con un’intelligenza emotiva altra.

Questo modo di intendere il cinema può essere definito militante

Si, sono militante. Ne ho fatto una missione.

In termini tecnici a favorire la tua missione è il metodo Strasberg e l’Actors’ studio che peraltro continui a studiare a ad applicare.

Quello è un continuo allenamento, perché non si finisce mai di ricercare l’essere umano. Strasberg diceva che la prima cosa era l’osservazione, la vita, la comprensione delle cose. Si tratta di uno strumento. Siamo esseri umani e io lavoro con questo strumento. E questo strumento si trasforma ogni volta che nella vita si incontra un’esperienza, quindi va sempre messo a punto. Si deve verificare quale sia il suo stato, vedere come si rapporta per poi, eventualmente, affinarlo. Nell’utilizzarlo però crea delle resistenze. Succede, quando hai una relazione amorosa che fallisce e devi interpretare una donna innamorata: con il metodo si lavora per sostituzione, quindi se mi devo innamorare ho bisogno di riportare in scena quella situazione che mi ha ferito e questo crea una resistenza. Devo andare ad agire in quella direzione, altrimenti non riesco a esprimerla fino in fondo sulla scena.

Di fatto il metodo implica per l’attore una vera e propria psicanalisi.

Guarda, si tratta di allineare mente corpo e spirito e poi c’è tutto il lavoro di documentazione. Così, per esempio, quando devi lavorare su un personaggio che ha caratteristiche fisiche particolari, si usa farlo rifacendosi ai movimenti degli animali. Dallo studio di quelli si comincia a imitarne le movenze. Se ti ricordi, Dustin Hoffman in Un uomo da marciapiede sembra un topo ed è palese che abbia lavorato su questo animale. Strasberg diceva che quando uno impara le tecniche poi si deve creare il proprio metodo. L’importante è che lo strumento sia armonizzato. Sempre.

D’altronde, anche Andrej Tarkovskij diceva ai suoi allievi che era necessario dapprima studiare e poi dimenticarsi tutto per camminare con le proprie gambe.

Assolutamente. Poi io vengo presa sempre per interpretare donne prestanti e molto dinamiche, dunque anche per me andare in palestra e allenarmi è un dovere come artista. Fa parte del mio lavoro.

A questo proposito, è evidente che per fare il mestiere dell’attore ci vuole un fisico bestiale e un allenamento continuo a tutti i livelli.

Infatti, ce lo stanno dimostrando le nostre colleghe americane che sono ancora in forma a sessant’anni. Prendi Sharon Stone, Michelle Pfeiffer, la Roberts e la Sarandon: tutte donne che, al di là della chirurgia estetica che, tra l’altro, oggi sta passando di moda, lasciando spazio alla fisiologia naturale, dimostrano come si possa essere delle persone normali e al contempo grandi attrici. Tutte fanno un grosso lavoro su di sé, anche a livello psicologico oltreché fisico.

Dunque per arrivare alla performance c’è bisogno di un continuo allenamento psicologico e fisico.

Per forza, comunque devi essere aperto verso l’esterno e renderti disponibile: essere vulnerabile e nello stesso tempo vigile. Ci vuole un grandissimo allenamento.

Molti criticano il metodo per le sue tecniche di immedesimazione e per la cosiddetta “sofferenza” dell’attore.

Invece, si tratta di un processo catartico fenomenale: io oramai la chiamo la fabbrica che trasforma la merda in cioccolato. È una svolta invece.

Mastroianni diceva di non capire il travaglio di certi attori americani che, per interpretare un personaggio, si calavano anima e corpo nel suo vissuto, mentre per lui invece si trattava di passare da uno all’altro senza soluzione di continuità, facendo a meno di metodi di quel genere.

Innanzitutto, ai tempi di Mastroianni dietro alla macchina da presa c’erano grandi maestri, erano tanti e conoscevano il lavoro. Inoltre, gli attori italiani del dopo guerra avevano – e come backgrund questa è la bellezza di essere italiani – un’eredità emotiva che ci appartiene come popolo e che invece gli americani devono andare a cercarsi perché sono un popolo giovane. Ora, metti le due cose insieme e ne viene fuori una bomba. Se al background culturale e a tutta l’arte di cui è impregnato il nostro DNA ci si mette sopra una tecnica che facilita l’accesso alle emozioni, allora non ci sono limiti alla riuscita della performance. Ricordiamoci Vittorio Gassman che era bravissimo ma soffriva tantissimo per non poter sentire fino in fondo, tant’è che a un certo punto è stato vittima della depressione. Non è un caso.

Molti attori, mi viene in mente il nome di Daniel Day Lewis, fanno fatica a uscire dalla parte e hanno bisogno di lunghi tempi di lontananza dal set per potersene disfare.

Ma scherzi, ne senti il bisogno, tanto che a un certo punto ho costruito due soppalchi. Ho sempre necessità di fare cose manuali. Adesso faccio giardinaggio, sporcandomi nella natura. Ho bisogno di allineare i tre livelli, mentale, spirituale e fisico. Quando questi sono in ordine tutto diventa facile. Per applicare il metodo ci vuole disciplina e c’è bisogno che venga trasmesso correttamente. Spesso è stato travisato.

Effettivamente, se si mettesse insieme il lavoro sul corpo e sulle emozioni tipico degli attori dell’Actors’ Studio con la capacità degli attori italiani di essere maschere, ne verrebbe fuori qualcosa di portentoso.

Quello che dici appartiene più alla commedia dell’arte, mentre il cinema che ha fatto la nostra storia era quello neorealista, basato sulla verità. Allora c’era la volontà di arrivare al vero delle cose e questa è una caratteristica che abbiamo per natura. Naturalmente, oggi sono cambiati i dolori dell’umanità, quindi c’è bisogno di avere un altro passo. Adesso non c’è la guerra, le sventure sono altre e bisogna dotarsi di nuovi strumenti.

Parliamo del tuo esordio e dunque de La meglio gioventù.

È una cosa che dicono tutti mentre, in realtà, io esordisco con Il furto del tesoro di Alberto Sironi. Una volta venendoci a trovare alla Palomar dove facevo l’assistente Alberto mi disse: “Tu vuoi proprio fare l’attrice, vero?, allora viene con me”. È così che ruppi un contratto a tempo indeterminato con Carlo Degli Esposti, rinunciando a un’eventuale carriera da produttrice, mestiere per cui mi sento molto portata.

Comunque il set de La meglio gioventù penso possa considerarsi punto di arrivo e insieme verifica di un lungo apprendistato.

Si, il mio primo corso di recitazione l’ho fatto a 14 anni e me lo sono pagato facendo il Pony Express. Non lo dimenticherò mai perché nessuno in famiglia mi sosteneva nel perseguire questo sogno , quindi è una percorso di cui mi sono fatta carico esclusivamente io.

Dunque il film di Marco Tullio Giordana è stato il tuo secondo lavoro.

La meglio gioventù fu il film della svolta perché dopo Il furto del tesoro non avevo più lavorato e questo mi aveva convinto che per guadagnare i soldi necessari a sostenere la mia famiglia avrei dovuto abbandonare il desiderio di fare l’attrice. Al tempo non c’erano le mail, quindi con i roller blade giravo per Roma portando le mie foto alle varie produzioni. Ero disperata perché non lavorando più per Palomar avevo bisogno di soldi per mantenere me e la mia bambina. A un certo punto entrai nell’ufficio dove stavano preparando L’aria salata di Alessandro Angelini e quest’ultimo mi suggerì di portare le foto al piano di sopra dove stavano facendo un altro film. Scocciatissima andai su e trovai il mitico Otello – che poi mori sul set di Quando sei nato non puoi più nasconderti – che mi porto dal regista al quale, buttando le foto sul tavolo, dissi: “Senti, queste sono le ultime che porto!”. Io, ancora ignorante, perché a me interessava fare l’attrice e non avevo approfondito le cose, sapevo appena chi avevo di fronte e mi ricordo che entrai con Blu piccolissima che nel frattempo cercava di buttare giù lo studio mentre dicevo a Marco Tullio che quelle sarebbero state le ultime foto che avrei portato, dopodiché il cinema italiano avrebbe perso una grande attrice – chissà come mi sono venute fuori queste parole (ride, ndr,) -. E fu così che, mentre stavo per firmare per Rai Sat, rinunciando per sempre alla mia carriera, mi chiamarono per fare i provini con Giordana. Arrivai pure sanguinate, perché lungo la strada mi ero fatta male. Alla fine lo sforzo fu ripagato perché dopo aver terminato l’ultimo di quattro provini  mi dissero di tenermi libera da Gennaio a Luglio per girare. Da lì ci fu un’inversione di marcia di cui non so se ringraziare o maledire Marco Tullio per avermi dato quell’occasione. Sicuramente ho molta gratitudine per lui ma ogni tanto mi chiedo chi me l’ha fatto fare di iniziare questo lavoro (ride, ndr).

Quello è stato un film clamoroso e tra l’altro fu una fucina per una nuova generazione d’attori tra cui anche te. Sul set si sentiva di partecipare a un film epocale e di svolta per molti di voi?

No, non c’era questa consapevolezza. Però si percepiva una grande cura. Marco Tullio è stato sempre un regista più propenso a lavorare con gli uomini, quindi i miei colleghi hanno vissuto un rapporto più viscerale con il film. Però, come dicevo, c’era una grande attenzione per le scenografie e per la luce, con in più la grande intelligenza del regista nell’osservazione degli attori. Io non gli avevo detto che come archetipo del mio personaggio avevo scelto Giovanna D’arco e lui un giorno, mentre stavamo girando la scena in cui ci trovavamo a tavola con nostro padre, mi disse: “Lidia, questa Giovanna D’arco la leviamo, che ne dici?”. Io non glie l’avevo mai detto e mi stupì molto il fatto che fosse riuscito ad  accorgersene.

Tu interpreti il magistrato Giovanna Carati che anche nell’ambito della famiglia protagonista della storia è il personaggio caratterialmente più forte: serio e rigoroso, come deve esserlo chi è per gli altri un punto di riferimento. Mi sembra che poi queste caratteristiche le hai ritrovate nella maggior parte delle tue interpretazioni.

Di solito nella  vita io sono una “cazzona”, perché entro così a fondo nella tragedia che poi faccio il giro di boa. Ultimamente sto frequentando di più la commedia, che per me è un miracolo. Sono felicissima di questo; ciò non toglie che le vicende della vita ti forgiano il carattere, quindi sono diventata una donna forte, il che non esclude il fatto di essere molto vulnerabile. Devo dire che da giovane mi è un po’ mancato il non aver interpretato film romantici. Giulietta non l’ho mai fatta, così come non ho fatto ruoli da “femmina”.

Infatti, la domanda successiva era un po’ questa, e cioè chiederti se il personaggio di Giovanna non ti abbia precluso parti più femminili, capaci di valorizzare la tua bellezza.

Sai qual è la cosa, un po’ è dipeso anche da me, perché non mi sono mai sentita bella e solo adesso inizio ad avere questa consapevolezza. Quindi, secondo me, questo ha finito per influenzare lo sguardo dei registi. E poi mi hanno insegnato che dovevo essere al servizio dei personaggi e solo più tardi ho capito che è stata una fregatura. No, scherzo, va benissimo, mi piace da morire continuare a fare queste parti e poi devo dire che ultimamente mi arrivano più ruoli in cui la mia bellezza viene più valorizzata.

Avendo tu il physique du role ci si chiede come mai questo venga fuori molto di rado.

Sai, un tempo i registi non avevano paura delle donne forti.

Questa poi è un’epoca in cui, in generale, la donna mette in soggezione il maschio.

Io ho un femmineo molto forte perché sono femmina, cioè non sono un maschiaccio ma un donna autonoma, indipendente che può mettere in crisi la controparte.

L’indipendenza femminile spaventa e non poco.

Non solo quella, ma ma anche la consapevolezza della propria libertà fisica. La mia sensualità non ha paura di manifestarsi. Se ti ricordi, nella La doppia ora faccio un piccolo ruolo però ho una scena bella, pregna di un sesso animalesco. Capotondi vide in me un aspetto che altri non sono riusciti a cogliere.

Parliamo, è il caso di dirlo, di un film bello ma sottovalutato.

Si, molto bello, ma se pensi a quella scena, quante volte avrei potuto fare la femmina? Però, se non ti scrivono dei ruoli femminili perché o sei la moglie di, la sorella di, o l’amante di, che puoi fare? Cioè, non ci stanno più i Monicelli che scrivono al femminile, così come non esiste più una D’amico, quindi devo ringraziare che almeno riesco a fare le vedove e i magistrati.

Continuando a parlare dei ruoli da te interpretati, ce n’è uno che credo abbia un sapore particolare e che per altro calza alla perfezione al tuo temperamento. Mi riferisco ad Anna, il monologo in cui sei Anna Magnani.

Si, da sette anni lo porto in giro per il mondo. Guarda, ci sono dei personaggi che ti scelgono e si scelgono. È abbastanza bipolare questa cosa. Parlo di figure che in qualche modo intervengono nella tua vita, facendoti fare un processo. Lei sicuramente è una di quelle. Per assurdo fisicamente io assomiglio più alla Bergman che alla Magnani. Però, certo, il suo temperamento, il fatto di essere una donna sola con un figlio, la romanità, il credere in un certo tipo di ideali e battersi per essi, l’indipendenza, insomma tutte queste caratteristiche sono sicuramente indice di un certo tipo di carattere. Però questo non vuol dire disdegnare il resto. Tanto che alla fine della sua carriera anche Anna era dispiaciuta, perché le proponevano sempre gli stessi ruoli.  Diceva : “Io so fare anche altri personaggi, ho fatto La signora delle camelie in teatro”. Poi magari uno viene anche incanalato in certi stereotipi perché manca il tempo, la curiosità e le sceneggiature.

Nel giudicare un attore spesso non si tiene conto della sceneggiatura. Intendo dire che ci sono testi che sono difficili da rendere, proprio perché non sono all’altezza della bravura di chi li deve interpretare. Immagino che quando questo succede, anche il vostro lavoro diventi molto più complicato.

È vero, ma su questo posso reputarmi abbastanza fortunata, perché alla fine della fiera mi arrivano dei progetti belli. Tulipani di Mike Van Diem è un bellissimo film, con una sceneggiatura corposa che riesce a colmare le piccole pecche dovute al difficile percorso produttivo.

Voglio dire che la resa dell’attore dipende anche dalla bravura di chi lo dirige e dalla puntualità della sceneggiatura.

La sceneggiatura è la prima fase di un prodotto, per cui se quella è carente va male anche il resto. Uno fa del suo meglio.

Da quello che mi dicono i registi, gli attori si dividono in due categorie: quelli che vogliono sapere tutto del personaggio e ne chiedono continuamente conto, e gli altri, che si basano sul testo, arrivando al personaggio in maniera autonoma.

Guarda, io faccio tutte e due le cose, e cioè parto prima dalla sceneggiatura e poi chiedo al regista cosa vuole, perché voglio essere al servizio del film. Poi, naturalmente, ci metto del mio. Quindi cerco di non impormi e di andare nella direzione richiesta, consapevole che si tratta di un lavoro di squadra in cui ci si deve incontrare. Diciamo che cerco di vedere sia il punto di vista autoriale che quello registico, e poi di portare il mio contributo che può essere la libertà all’interno di quei paletti imposti dalla direzione. Limiti che fanno bene e all’interno dei quali ci sono una marea di possibilità in cui ti puoi manifestare.

Scegliendo due film che possono essere una sintesi del tuo lavoro, mi viene in mente Tiger Boy di Mainetti, in cui lavori come spesso ti capita, con un regista esordiente. Di lui si vedeva già il talento?

Ho fatto anche Basette, sempre diretto da Mainetti. Da subito ho apprezzato come lavorava Gabriele con cui ci conosciamo fin da ragazzini. Il suo lavoro mi ha sempre convinto perché ho capito che c’era un guizzo, un quid in più.

Invece cosa succede quando si incontra un regista che è prima di tutto un attore, parlo del Sergio Castellitto de La bellezza del somaro?

Sergio conosce sicuramente il lavoro dell’attore, poi ha dietro un genio come sua moglie (Margaret Mazzantini, ndr). Da parte sua ci vuole l’intelligenza di seguire una bella testa come quella di Margaret. La perspicacia di un uomo è anche quella di farsi guidare da una donna come lei, capace di scrivere un monologo come quello di Zorro. Lui era in un periodo in cui non lavorava e quello spettacolo, con il suo straordinario testo, gli permise di risalire la china. Purtroppo nella realizzazione de La bellezza del somaro non abbiamo avuto abbastanza tempo per fare le prove tra noi attori, trattandosi di un film strutturato in una maniera quasi teatrale.

Ritengo sia stato uno dei film più belli e sottovalutati tra quelli diretti da Castellitto.

Moltissimo, anche secondo me. Poi l’Italia è un paese strano, in cui se vai in antipatia come regista allora c’è tutta una roba di clan che è ridicola nello scatenare guerre e rappresaglie. Sergio tante volte si fa fregare dalle risposte, non riuscendo a metterla sull’ironia, l’unica cosa da fare in certe occasioni.

In Tulipani, da poco passato nelle sale, ti ritrovi a lavorare con regista e cast stranieri. L’autore del film è stato vincitore dell’Oscar per il miglior film straniero e nella fattispecie dirige una favola che è un vero e proprio omaggio all’Italia paesaggistica e cinematografica.

L’esperienza con Van Diem è stata importantissima. In un paese in cui ti tarpano le ali e tendono un po’ a ridurti, ho trovato un regista che mi chiedeva di dargli di più e quindi a trovarmi questa grande libertà interpretativa, oltretutto con dei testi di grande spessore. Il ruolo di Immacolata lo è stato altrettanto, al punto da rappresentare un momento di svolta e di crescita. L’ho fatto con tutti i crismi e senza farmi distrarre dalle beghe produttive che hanno protratto le riprese per ben due anni.

Il tuo ruolo è iconico rispetto a certo cinema italiano di matrice neorealista, pur trattandosi di un film di tutt’altro genere.

Tantissimo, ma chi l’ha scritto era innamorato dell’Italia, luogo in cui paradossalmente non ha mai potuto vivere. Van Diem in qualche modo cercava un personaggio femminile molto autentico e rappresentativo, fatto che per un’attrice è una grande cosa. In più ho potuto recitare in barese che non è il mio dialetto.

Recitare in dialetto è una cosa che ti capita spesso.

Io e i dialetti andiamo molto d’accordo. In Restiamo amici mi pare che sono bolognese.

Nella commedia di Antonello Grimaldi appari come non ti abbiamo mai visto. Sembri un’amazzone e nei panni di una segretaria sui generis sei irriconoscibile.

Il film è nato un po’ per gioco. Ad Antonello (Grimaldi, ndr) era saltata l’attrice all’ultimo momento, quindi mi ha chiamato chiedendomi di interpretare quel ruolo. Io gli ho chiesto due cose: di lasciarmi carta bianca e di prenotarmi un albergo con SPA. Quindi dal parrucchiere mi sono fatta comprare una parrucca cinese con quella gli ho fatto realizzare una coda di cavallo una coda di cavallo lunga fino al sedere. Poi ho cominciato a parlare in bolognese tanto che quando sono arrivati in albergo Riondino e Roia non mi hanno salutato e mi sono pure arrabbiata prima di scoprire che non mi avevano riconosciuta.

Sei anche nella seconda serie di una serie seguitissima come Romolo+July. Parteciparvi ti ha dato grande visibilità.

Succede sempre così. Ti fai il mazzo per una vita poi per una cretinata (ride, ndr)….

In Actus Reus, ancora inedito, hai avuto l’opportunità di lavorare con tua figlia (Blu Yoshimi, ndr).

Si, mentre adesso sono in Puglia per prendere un premio per il cortometraggio girato con Marco Mingolla dove ho anche recitato con Blu. Io e lei facciamo lo stesso personaggio in età differenti.

Intervistandola avevamo parlato di te, per cui vorrei farlo anche qui, chiedendoti di lei.

Mia figlia è la mia collega preferita. L’ho diretta nel mio corto Tra Fratelli e sono felicissima che sia riuscita a essere così libera davanti a me. Come attrice è completamente differente da me, ed è una grande soddisfazione vederla recitare in completa autonomia e libertà. Nel mio  cortometraggio da regista Blu fa una scena tosta di fronte alla madre – che sarei io – quindi ritrovarmela davanti alla macchina da presa così a suo agio per me è stato un grossissimo risultato, al di là del fatto che Blu è il più bel “film” della mia vita. Sono davvero onorata di aver ospitato questo essere umano nella mia vita. Detto questo, è la mia collega preferita perché ha un modo di lavorare davvero al servizio dell’opera, e questo la rende proprio bella come attrice. E qui parlo da collega, non da madre.

Lo hai detto spesso nel corso dell’intervista e si è capito anche dal tono delle tue risposte. Mi riferisco al fatto che molte volte nel corso della tua carriera hai dovuto contare solo su te stessa. Un modello, il tuo, che oggi è quello a cui le donne si richiamano per far valere i loro diritti. Rispetto alla tua esperienza come vedi quello che sta succedendo oggi?

Si tratta di una rivoluzione più intima rispetto al passato. Se ascolti i discorsi delle nostre colleghe d’oltreoceano, che hanno un po’ più di consapevolezza, si tratta anche di accogliere questo maschile che non sa cosa è successo e che cambiamento c’è stato. Si tratta di riuscire a fargli capire che alcuni dei valori imposti negli scorsi secoli non funzionano più, perché operano in una normalità che tale non è. Vanno anche loro condotti verso questo femminile nuovo, che non è contro ma in accoglienza, insegnandogli anche come va trattato il femminile in questo momento. Penso che sia un momento in cui il femminile, quello pulito, quello vero, quello che io chiamo della donna luce, ha necessita d’emergere perché una donna non manderebbe mai in guerra i suoi figli e per nessun motivo disboscherebbe l’Amazzonia. Dunque, si tratta di una cosa più profonda che in Italia non sta ancora funzionando fino in fondo perché noi donne non siamo unite e non così consapevoli di cosa sta succedendo. Però è un momento importantissimo a livello energetico per il femminile, perché abbiamo la forza e il coraggio per risollevare le sorti del mondo.

Le caratteristiche di cui mi parli ce l’avevano anche le donne che ci hanno preceduto. Quante di loro hanno portato avanti famiglie da sole perché i mariti erano in guerra, e quante andavano a lavorare lontano da casa per mantenere i molti figli a carico. Quella è una caratteristica che hanno sempre avuto. Oggi c’è qualcos’altro, c’è ancora qualcosa di più. È un discorso più intimo ed è più a livello pratico e riguarda le ragioni per cui devo essere pagata cinque volte meno rispetto a un uomo, solo perché nei secoli si è concretizzata una formula per cui io valgo meno. Quindi è un momento importantissimo e spero che la settima arte cominci, specialmente in Italia, a dare l’esempio. Noi sappiamo come farlo: i talenti ci sono e vanno solamente tirati fuori e fatti emergere aprendo le porte al merito e alla meritocrazia più profonda, andando a scovare quelle cose che parlano di questo nuovo femminile. Che lo fai in chiave di commedia, action o tragedia poco importa.

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