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Conversation

Sulla cresta dell’onda: conversazione con Claudia Gerini

Presente sul grande e piccolo schermo con Dolce Roma e Suburra e prossimamente nei cinema con Non sono un assassino e A mano Disarmata, Claudia Gerini sarà protagonista del nuovo film di Gianni Amelio, dedicato alla figura di Bettino Craxi, attualmente in lavorazione. È da qui che siamo partiti per ripercorrere i momenti più salienti di una carriera sorprendente e ricca di titoli importanti

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Con Dolce Roma e Suburra sei presente sul grande schermo e on demand, mentre stanno per uscire altri due lavori che ti vedono protagonista: Non sono un assassino e A mano disarmata. Se consideriamo che sei anche nel cast del nuovo film di Gianni Amelio dedicato a Bettino Craxi, direi che il tuo è davvero un grande momento.

Si, è vero. A parte Dolce Roma che è già nelle sale, il 30 Aprile uscirà Non sono un assassino e, infine, il 6 Giugno A Mano disarmata. Il film di Amelio lo stiamo girando in questi giorni e penso sia destinato a una distribuzione autunnale.

In una carriera in cui non ti sei fatta mancare il cinema d’autore e persino quello sperimentale, il film di Amelio mi pare si possa considerare una vera e propria laurea.

È vero! Sognavo da sempre di lavorare con Gianni e, nell’anno in cui ero madrina del Torino Film Festival e lui direttore artistico, ricordo di avergli detto quanto mi sarebbe piaciuto un giorno poter collaborare con lui. Amelio è una persona straordinaria, la cui dolcezza e poesia lo rendono un uomo e un regista molto speciale. Sono stata felice di aver realizzato questo sogno perché, pur avendo lavorato con grandi autori come Tornatore, Andò, Mel Gibson e tanti altri, sono consapevole di avere ancora molta strada da fare.

Amelio completa una carriera di per sé davvero ricca ed eterogenea e che anche solo riferendosi ai film menzionati si è svolta all’insegna della versatilità. 

Ti ringrazio, perché io ne faccio uno dei miei requisiti principali, nel senso che mi piace cambiare per essere in ogni film una donna diversa non solo nel look e nei capelli ma anche nella gestualità e nel modo di parlare. Secondo me, la cosa speciale del nostro lavoro è il camaleontismo attraverso il quale ci è possibile vivere molteplici vite. Per esplorarle, la componente fisica e la maniera di muoversi diventano il mezzo per connettersi con la dimensione più nascosta dei personaggi, quella che si vede meno e che però diventa fondamentale nella resa dei caratteri. Si tratta di un processo che ha implicazioni sulle sicurezze personali, perché certi ruoli portano necessariamente lontano dalla propria esperienza. A me, comunque, piace molto uscire fuori dalla mia comfort zone per cui sono contenta quando questo si verifica.

Il mio domani di Marina Spada e La leggenda di Kaspar Hauser di Davide Manuli nella loro diversità sono l’esempio lampante di ciò che stiamo dicendo.

Si, anche perché la diversità riguardava soprattutto registri e linguaggi. La leggenda di Kaspar Hauser è un film al quale sono particolarmente affezionata. Nonostante sia stato tagliato in un modo un po’ brutale – cosa che a sua tempo ho avuto modo di dire anche al regista – mi fa piacere avervi preso parte. Come ti dicevo prima, sono attratta da tutto ciò che mi mette alla prova.

Come succede in quello che può essere considerato il tuo esordio d’attrice in cui  sei spiazzante nel passare dall’immaginario nazional popolare di Non è la Rai al rigore neorealista di Padre e figlio, diretto da Pasquale Pozzessere. 

Cercavo un modo per uscire da Non è la Rai proprio perché volevo fare cinema. Pur avendo imparato molto da quel programma, ero arrivata a un punto morto, in cui oltre a sentirmi un po’ parcheggiata avevo voglia di fare cinema. Il film di Pasquale Pozzessere è stata l’occasione giusta perché mi ha offerto un ruolo drammatico per il quale mi sono dovuta tagliare tutti i capelli, imparare l’accento genovese, insomma rivoluzionare l’immagine derivata dalle mie frequentazioni televisive.

D’altronde, penso che il programma di Gianni Boncompagni sia stato una vera e propria esperienza sul campo.

Ma certo, perché comunque eravamo tutti i giorni in diretta, impegnati a ballare e a cantare di fronte a una telecamera. Di fatto, per le nostra formazione si è trattato di un laboratorio in cui ogni giorno imparavamo una cosa nuova. È stata una vera e propria palestra per tutte noi.

Penso si sia trattato di un passaggio fondamentale per apprendere tempi e modi dello spettacolo. Ricordando la tipologia delle vostre performance aggiungerei anche la maniera di far fronte agli imprevisti, imparando a improvvisare.

Assolutamente. È una cosa che non rinnego mai e anzi mi fa piacere aver iniziato così, anche se in realtà i miei esordi risalgono al 1987, anni in cui ho recitato in due commedie di Bruno Corbucci: Roba da Ricchi e Night Club. Da lì, poi, sono passata a Non è la Rai.

E arriviamo al tuo primo ruolo cult, quello destinato a darti la popolarità anche nel cinema. Parlo di Jessica di Viaggi di nozze. Prendendo spunto dai film per inquadrarti non solo come attrice ma anche come persona, qui a emergere è il coraggio di confrontarti con un mostro sacro. Lo farai in altre occasioni, ma quella con Verdone è stata una vera e propria iniziazione.

Beh, io ero praticamente una seguace di Carlo: senza saperlo avevo studiato tutta la sua cinematografia, perché da quando ero ragazzina guardavo a ripetizione Borotalco, Acqua e Sapone Bianco Rosso e Verdone. Li avevo studiati come una bibbia ed ero ferratissima su ogni dettaglio che riguardava quei film. Verdone era il mio idolo incontrastato e assoluto, per cui è logico che temessi di non essere all’altezza della situazione, anche per la consapevolezza di non avere una grande esperienza. Per cui un po’ è stata incoscienza, come pure l’essermi affidata a un grande regista come Carlo, un vero e proprio maestro nel mettere in evidenza le qualità delle sue attrici.

Rivedendo il film a spiccare è la perfetta alchimia tra di voi. Quanto c’era di costruito e quanto invece lasciato all’improvvisazione?

Tra me e Carlo c’è qualcosa di magico. Non ti so dire come, ma tra me e lui esiste qualcosa di energicamente perfetto che ci rende naturalmente una coppia. Non è sempre scontato, ma nel nostro caso si sviluppa un’alchimia speciale. La sceneggiatura era di quelle ben strutturate, in grado di farti capire caratteristiche e storia dei personaggi. Sapendo chi erano  Ivano e Jessica, per me e Carlo è stato più facile divertirsi nell’interpretarli. Lui è molto bravo a giocare all’interno di determinati paradigmi, a cambiare in maniera camaleontica e con tempi strepitosi. Io mi sono lasciata andare, affidandomi alla nostra intesa. Qualcosa era improvvisato, ma in generale ti posso assicurare che abbiamo fatto poche prove: solo qualche dialogo, poi andavamo senza freni, insomma un po’ a ruota libera.

Sei scivolata nel personaggio in maniera clamorosa facendo di Jessica una figura iconica, presente nell’immaginario di buona parte degli italiani.

La cosa che ci tengo a dire è che io ho tratteggiato un personaggio estremamente vero. Non ho mai caricato il cliché della “bora”. In alcuni momenti Jessica raggiunge toni anche molto drammatici e come Ivano è a suo modo una figura poetica. Ogni volta che rivedo il film sono colpito dalla naturalezza e la verità che esiste tra Ivano e Jessica: si tratta di due personaggi estremamente autentici. Non diventano mai delle maschere, ma rimangono sempre degli esseri umani.

A tal proposito, una caratteristica del tuo modo di essere attrice e di interpretare i ruoli risiede nel fatto di non usare alcuna maschera e di lavorare su te stessa per diventare personaggio. Cosa che succede anche nelle commedie che, per antonomasia, sono il genere che più di tutti ricorre al travestimento. 

Ti ringrazio, è una cosa molto bella da sentirsi dire, perché stai parlando di quello che è il trucco principale del nostro mestiere, e cioè di far sembrare che non stai recitando e che quel personaggio lo potresti incontrare al bar o in fila alle poste. Questo penso che sia una caratteristica particolare. A dire il vero, rispetto ai miei personaggi non guardo se sono comici o drammatici. Semplicemente, mi ci infilo dentro e cerco di viverli al cento per cento. Il che, almeno per me, significa giustificarli, capirli, sentirne bisogni e desideri. Credo che tutto questo sullo schermo si vede. Sinceramente non c’è una tecnica particolare.

La neutralità dei tuoi tratti fisici e le caratteristiche della tua figura rimandano a un tipo di donna dalla forte personalità, femminile ma con una determinazione molto maschile. A parte la possibilità di interpretare diversi ruoli, mi pare che il tuo lavoro consista, tra le altre cose, nel fare emergere fragilità da questa iniziale idea di infallibilità.

Ma, io penso che i tratti determinanti siano prettamente quelli psicologici o relativi al viso e agli occhi. Quando Verdone mi scelse per Jessica mi disse che avevo una faccia un po’ borghese, da donna elegante e che però potevo fare bene la coatta (ride!). Credo proprio che le cose più interessanti possano nascere dai contrasti come quello che esiste nell’incontro tra un volto come il mio, privo di tratti forti, e un personaggio come quello della classica coattona romana che invece dovrebbe averli. A divertirmi molto sono i costumi, che nel cinema vogliono dire molto. Io prendo molta forza da come sono vestita.

Un taglio dei capelli, la foggia di un vestito. Per molti attori a fare la differenza sono particolari apparentemente trascurabili.

La scelta di un abito o di un taglio di capelli ti fa capire tante cose: partire da un dato fisico e materiale aiuta a entrare in contatto con una dimensione psicologica. Ivano ed Enza Sessa, sempre per tornare a Verdone, avevano questi capelli tagliati in maniera particolare, strani e un po’ pazzi, che finivano per dargli un carattere forte. Anche le stoffe vistose dei loro abiti in Grande Grosso e Verdone contribuivano a renderli diversi dagli altri. Te ne accorgevi quando dentro l’albergo i loro vestiti stridevano con il resto dell’ambiente. C’è poi l’uso della lingua e del dialetto: in Ammore e malavita quello napoletano è stato decisivo per farmi entrare nei panni di Donna Maria.

Ammore e malavita è un esempio della tua versatilità e umiltà, nel senso che entri in un universo particolare e pazzo come quello dei Manetti e reciti accanto a un campione come Carlo Buccirosso, riuscendo a dare l’idea di averne da sempre fatto parte.

Beh, tra le mie capacità c’è quella di essere molto elastica. Mi piace molto muovermi all’interno dei registri comici. Tanti anni fa ho fatto Lucignolo con Massimo Ceccherini in cui non c’era niente di normale, però io ci stavo bene. Da qui il mio pensiero sul fatto che bisogna essere veramente liquidi per entrare in tutte le forme dell’essere umano. Dei Manetti avevo amato molto Song’e Napule. Amo Napoli e facendo il loro film ho preso tantissimo dai miei colleghi. Carlo Buccirosso è stata la mia forza. Oltre ai costumi e a Donna Maria, la moglie del boss. Nel mondo dei Manetti ci “sguazzavo” davvero bene.

Tra l’altro, per quel ruolo hai vinto anche il David come miglior attrice non protagonista.

Mi ha fatto piacere vincerlo perché è un premio importante, arrivato dopo un lungo percorso lavorativo. Tra l’altro, ero stata  candidata ben sei volte. Una di queste mi ha spiazzato perché in Maldamore avevo fatto solo due scene, in cui ero una donna ubriaca che rimorchia Luca Zingaretti. Nel caso di Donna Maria, penso che la sua forza espressiva abbia conquistato veramente tutti, permettendomi di sbaragliare ala concorrenza. È stata lei che mi ha portato al David (ride!).

Nel tuo percorso artistico non sono mancate soddisfazioni anche quando si è trattato di lavorare nella parte di te stessa. Mi riferisco alla conduzione di due eventi televisivi molto importanti e prestigiosi come il Festival di San Remo e il concerto del Primo Maggio.

Sì, sì. Si è trattato di due lunghissime dirette, però c’è da dire che più le platee sono numerose e più mi carico. Addirittura ho suonato il basso elettrico, io che ero – adesso non più – una bassista dilettante. Mi ricordo che con Paolo Rossi feci questa esibizione in cui suonavo, e il mio compagno d’allora, Federico Zampaglione, mi disse: “Tu non suoni mai, ma quando ti decidi lo fai davanti a non meno di qualche milione di persone”. Tra l’altro, anche al Festival di San Remo mi sono cimentata in una session musicale. In quell’occasione, invece di fare le classiche vallette ci siamo cimentate in mini show e insieme a Serena Autieri abbiamo cantato e ballato. Ho portato un sketch comico con Pippo Baudo a farmi da spalla, un pezzo di cabaret dove interpretavo una sorta di spagnola. Insomma, mi sono divertita tantissimo. San Remo è una faticaccia, dove per cinque giorni non si dorme e c’è tanta pressione, ma io l’ho fatto con grande entusiasmo. È vero che avevo ventotto anni, però vivevo un momento di grande espressività e creatività. Nel concerto del Primo Maggio ero più libera, sola nello studio ad animare le pause tra un’artista e l’altro. Amo la televisione, flirto con essa e faccio sempre delle incursioni, perché penso che una delle mie prerogative sia quella di fare non tanto conduzione ma show.

Ad un certo punto la tua carriera diventa anche internazionale con la partecipazione a un film come La passione di Cristo di Mel Gibson.

Quello con Mel Gibson è stato davvero un incontro improbabile. Una responsabile del casting che purtroppo oggi non c’è più mi chiamò il 14 Agosto e mi disse se per caso fossi a Roma, perché c’era Gibson che stava cercando degli attori per il suo film. Ero al mare in Toscana, ma mi sono precipitata a Roma il giorno dopo per incontrare Gibson in una terrazza di un albergo. Mi ha fatto leggere delle frasi in aramaico e in latino. Fu un momento meraviglioso, andando via ero felice di averlo incontrato e anche desiderosa di essere stata scelta. Tra l’altro, c’era la coincidenza che il personaggio si chiamasse con il mio stesso nome. Dopo due mesi, dunque dopo molto tempo, mi ha risposto e sono entrata a far parte del cast. Ho un ricordo molto bello di quel set: Mel era molto ispirato e si respirava grande libertà. Si facevano le scene con molta calma, senza la fretta che di solito si ha per la mancanza di soldi. The Passion è costato venticinque milioni di dollari: per lui era un low budget mentre per noi italiani almeno cinque o sei film. C’era un lirismo veramente unico, e poi sono contenta di aver partecipato a un film storico.

La tua parte, come quelle degli altri personaggi femminili, è commovente e straziante. Come si arriva a un livello di pathos così profondo e partecipato?

È qualcosa che ti trasmette il regista, la messinscena e tutto quello che hai intorno a te. Vieni messa dentro un mondo in cui devi lasciarti andare alle emozioni e a quello che sei nella profondità della storia e del personaggio che stai interpretando. Dipende tutto dal regista che è il padre del film e che, nel caso in questione, ha avuto la grande abilità di portarci dentro il racconto.

Il 2004 è un anno importante. Dopo il film di Gibson, ti rendi protagonista di uno dei ruoli più belli e complessi della tua  filmografia, perché in Non ti muovere interpreti una donna borghese apparente frivola ma invece molto consapevole. La tua è una parte introversa e ambigua che fa da contraltare a quelle molto esplicite e manifeste di Sergio Castellitto e Penelope Cruz.

Si, era un ruolo molto controverso, perché lei è una donna un po’ ambigua: una donna di casa ma sempre distante, fredda e allo stesso tempo partecipe della vita del marito. Un ruolo del genere lo aspettavo, ed è vero quello che dici, io rimango sempre in bilico, nel non detto. La protagonista, interpretata dalla Cruz, è talmente pura nella sua sfortuna mentre io facevo una donna borghese e privilegiata. La difficoltà stava nel dare sfumature all’antipatia di una donna che era agli antipodi di Fortunata, il personaggio della Cruz. Tra le tante scene ce n’era una d’amore tra il mio personaggio e quello di Sergio, ed era veramente fastidiosa per il pubblico. Si trattava di un momento intimo tra marito e moglie che però veniva trasformato in qualcosa di disturbante, e penso che Castellitto ci sia riuscito. Lui è un grande direttore d’attori, ed è una cosa che ho rilevato in molti dei miei colleghi che passano alla regia. Com’è successo nel caso di Rubini e di Mel. In generale, confrontarsi con Sergio è stato molto bello.

Nel 2006 partecipi a due film più belli della stagione: La sconosciuta di Giuseppe Tornatore e La Terra di Sergio Rubini.

Si, mamma mia, La sconosciuta era un film durissimo, cattivo, La terra mi era piaciuto moltissimo. È da tanto tempo che non lo vedo: lì Sergio è stato capace di fare un affresco molto particolare che ha rappresentato un momento importante della sua carriera di regista. C’era un Fabrizio Bentivoglio in stato di grazia, una fotografia bellissima, e anche in questi film un panorama di donne molto varie.

Giuseppe è uno spettacolo vederlo al lavoro: studia l’ambiente, va in giro per il set e prima di muovere la macchina da presa ci pensa tantissimo. Gli piacciono i piani sequenza, i movimenti di macchina e, se ti devo dire, per me e stato un onore lavorare con lui. Tra l’altro, Giuseppe è stato l’unico che dopo avermi scelta tramite provino mi ha telefonato, dicendomi che mi voleva consegnare la sceneggiatura cartacea personalmente e non per e-mail. Un gesto con cui mi ha voluto affidare qualcosa di sé. Il primo giorno di lavoro mi ha regalato un mazzo di rose rosse, cosa che non è da tutti, e poi mi ha diretto in modo molto attento. Mi ricordo che mi diceva sempre di sottrarre qualcosa dalla mia interpretazione. Ripeteva: “Devi darti poca espressione”, chiedendomi la fissità e la freddezza di una donna a cui la vita aveva dato il piacere di essere madre, adottando una bambina, senza che però questo le facesse dimenticare i travagli della propria. Ricordo il piacere di vedere come Tornatore riuscisse a esprimere tutto questo attraverso movimenti di macchina complicatissimi. Sergio, invece, è un affabulatore. Mi ricordo che, nel raccontarmi il mood della scena, sceglieva i vocaboli con una precisione estrema. È uno che staresti a sentire per ore per il suo modo di parlare, per come si esprime. Ne La terra ero una donna che veniva da un altro mondo e che era costretta a tuffarsi nella famiglia del marito. Ero una specie di aliena, fuori da ogni aspetto di quel contesto.

Venendo ai nostri giorni, tu sei protagonista della prima serie italiana prodotta da Netflix che è Suburra, che peraltro si rivela uno dei grandi successi della piattaforma americana. Che implicazioni comporta fare parte di un un progetto così ambizioso?

Penso che per un attore italiano fare una serie con Netflix costituisca una possibilità di lavorò straordinaria, perché recitare in italiano e, nonostante questo, avere la possibilità di raggiungere un bacino di utenza di centonovanta paesi e quasi 150 milioni di iscritti sono numeri incredibili. Lo stile è del tutto cinematografico, con registi come Molaioli, Messina, bravissimi e comunque con dei mezzi a disposizione da grande produzione, centinaia di comparse, molte location. Poi, dal punto di vista della mia interpretazione, mi ha dato la possibilità di declinare la romanità in una maniera che ancora non avevo fatto, perché sono una donna ambiziosa, attaccata al denaro e al potere. Sono una donna avida. Suburra è riuscito ad attirare molto i giovani diventando una serie di culto. Vedo che chi lo segue lo fa con fervore e con amore, per cui non si accontenta. Non è sempre facile fare un prodotto che rimane.

Vorrei concludere questa conversazione chiedendoti di dirmi qualcosa su A mano disarmata, in cui interpreti la parte della giornalista Federica Angeli. Si tratta di un film di impegno civile che racconta la storia (vera) della lotta solitaria di una donna che cerca di combattere il potere mafioso.

Raccontiamo una storia di grande coraggio, di una che si definisce una “donna tigre”, che è appunto Federica Angeli, persona che ho conosciuto, ho capito e amato. Penso sia un film necessario di questi tempi, una sorta di romanzo dell’impegno, del coraggio di una donna e di una giornalista che non piega la testa, che non ci sta a queste regole che gli impongono. Sa di avere ragione e non vuole sottostare e da sola cerca di rovesciare questo sistema in modo rivoluzionario. Lei è stata una giornalista di cronaca nera, ha fatto inchieste sul traffico d’armi, si è infiltrata e quindi non è una neofita. Ha dimostrato impegno, coraggio e umanità, mossa dalla grande passione per la verità, per non condannare i figli a vivere in un mondo così corrotto. Noi abbiamo raccontato di più la parte famigliare, il suo ruolo di madre costretta a vivere sotto scorta, la sua lotta iniziale, quando nessuno voleva crederle prendendola per pazza quando parlava di mafia ad Ostia.

Rispetto a un personaggio che hai avuto modo di conoscere, hai optato per un’interpretazione mimetica oppure per una scevra da imitazioni di questo tipo?

Guarda, io non dovevo farne un’imitazione, nel senso che poi Federica la si conosce tramite i social, per cui stiamo parlando di un volto oramai noto. Però, non vedevo il bisogno di caratterizzarla in modo particolare, perché non stiamo parlando di una persona famosa a livello di immagine. Ho cercato di ricreare i tratti del suo carattere, della sua grande ironia. Lei è molto forte, dinamica e ironica come me, quindi ho portato sullo schermo il suo spirito, i modi combattivi riassunti anche nei jeans e nella camicia che per lei sono una specie di uniforme da combattimento, così come i capelli biondissimi. Diciamo, però, che le sono stata vicino cercando più che altro di ricreare il suo modo di prendere la vita, che è un’attitudine festosa, non essendo lei mai cupa, anzi, molto vitale, dotata di una grande autoironia. Insomma, ho cercato di assorbirla come una spugna per rendere il suo animo, anche perché nel suo sistema di verità lei è convinta che siano i malavitosi che devono andare via e non lei. Quando tutti gli consigliano di cambiare città e quando le chiedono se non abbia paura per i suoi figli, dice di farlo proprio per loro, perché non è possibile dar loro l’esempio di aver messo la testa sotto la sabbia. Quindi, mi sono aggrappata a questo suo modo di essere vera e autentica.