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Inizia con Killing di Shinya Tsukamoto l’Across Asia Film Festival

Killing è un film estremamente complesso, esistenziale, con una narrazione esigua ed essenziale, da assaporare tutto attraverso le suggestioni evocate dalle immagini e attraverso l'astrazione delle stesse, lasciandosi andare alle libere percezioni visive, sensoriali, emotive

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Non poteva iniziare in modo migliore la ricca serie di proiezioni selezionate dalla direzione artistica dell’Asia Across Film Festival, che sceglie il Giappone come primo paese per rappresentare il cinema asiatico e presenta come prima opera il bellissimo, ultimo film di Shinya Tsukamoto, Killing, già apparso pochi mesi fa alla mostra del Cinema di Venezia e considerato da tanti tra i migliori film in concorso per il Leone D’Oro.

Tsukamoto affida i suoi contenuti e il suo messaggio alla potente suggestione della tradizione dei samurai, ambientando la narrazione nel Giappone del XIX secolo, dove il giovane samurai Mokunoshin Tsuzuki vive il suo doloroso conflitto esistenziale tra la fedeltà all’arte della spada e l’essenza pacifica del suo essere. Nonostante si tratti di un film nel quale il contesto storico è quello di un’epoca in cui la tradizione e le figure rappresentate danno alla narrazione una forte connotazione spirituale, solenne, pervasa da un’atmosfera astratta che incute una sorta di riverenza, Tsukamoto mantiene gli elementi caratteristici del suo linguaggio, quelli più crudi, violenti ed espliciti e li amalgama perfettamente con i costituenti di una dimensione carica di spiritualità, nella quale rispetto e dignità sono centrali, ottenendo in maniera estremamente efficace il risultato di conferire ulteriore potenza alla stessa, così da renderla un veicolo perfetto per ciò che vuole comunicare.

Le scelte tecniche, l’utilizzo della camera a mano, sempre concitato e nervoso, caotico, l’uso della luce, caratterizzato dall’alternarsi di riprese che catturano i toni cromatici dell’alba e del crepuscolo, contribuiscono a comunicare l’inquietudine e l’angoscia provata dal protagonista, risultando perfettamente coerenti con i suoi stati d’animo e con le sue azioni inquieti, incerti, tormentati,  carichi di sofferenza. Tutto è già scuro di per sé, ma lo diventa sempre di più man mano che il conflitto del ragazzo si evolve verso il cedere a qualcosa che non sente suo, ma che in qualche modo fa parte di lui, o ci si aspetta da lui che sia così. Uccidere. Il film è in tutto e per tutto un continuo combattere tra la propria natura non violenta e contraddistinta da desiderio di pace, accoglienza, condivisione, e la componente di sé e della natura umana che lo porta comunque, per essere fedele alla propria arte, ma forse anche soltanto perché umano, a utilizzare la sua spada per uccidere. Il ragazzo è una persona estremamente affettiva, pacata, composta, ma anche molto passionale, il che lo induce ad allenarsi quotidianamente e a progettare di partire per luoghi in cui potrà combattere, ma quando arriva il momento di farlo davvero non si sente in grado, non si riconosce in qualcuno che dovrà porre fine a delle vite, non riesce a tollerare che altri lo facciano o se lo aspettino da lui, nemmeno quando ad aspettarselo è qualcuno cui tiene o quando lo slancio che lo muove potrebbe essere anche più comprensibile perché dettato dalla rabbia di aver perso una persona cara e dalla possibilità di poterla vendicare. È come se proprio non riuscisse a ritrovare dentro di sé quel distacco necessario a non provare empatia per l’essere umano in quanto tale, nel momento in cui la fedeltà a un patto o la necessità di servire chi è al di sopra di lui dovesse rendere necessarie azioni violente o omicide.

E sono due gli aspetti più belli di questo lungo ed estenuante conflitto interiore: il primo è che questa strenua lotta denota una grande forza individuale delle proprie istanze che prevale su qualsiasi elemento o forza esterna a sé; il secondo è che questa essenza così forte, per affermarsi, alla fine paradossalmente debba farlo proprio cedendo alla violenza per esprimere se stessa, confermando così la componente violenta della natura umana, questa volta mossa da dentro. Una riflessione incredibilmente amara e angosciante.

Un elemento particolarmente suggestivo è dato dal sangue, un sangue sempre presente, che sgorga copioso ma non si capisce mai esattamente a chi appartenga, da dove venga, chi sia stato durante la lotta a provocarne la fuoriuscita e chi sia la persona ferita, come a sottolineare che non importa di chi sia, importa soltanto che fluisca e che crei dolore o tolga vita. Diventa indice aspecifico di violenza indipendentemente da chi ferisce e da chi viene ferito.

Emblematica e molto incisiva anche la figura di Sawamura, interpretato dallo stesso regista, un samurai più maturo e consapevole, ma anche più cinico e disincantato, che rappresenta nel contesto la forza esterna, la società, l’onda che si muove coerentemente con il funzionamento del mondo e che non sente ragioni né sentimenti, impermeabile a qualsiasi empatia, ma nello stesso tempo sempre affabile e gentile. Inquietante nel suo essere perennemente coerente con un se stesso che non è essenza e che non è mai individuo o sentire. Killing è un film estremamente complesso, esistenziale, con una narrazione esigua ed essenziale, da assaporare tutto attraverso le suggestioni evocate dalle immagini e attraverso l’astrazione delle stesse, lasciandosi andare alle libere percezioni visive, sensoriali, emotive, senza soffermarsi troppo a pensare, ma seguendo il flusso potente del fascino e della luce enigmatica quanto avvolgente che emana.

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  • Anno: 2018
  • Durata: 80'
  • Genere: Giappone
  • Nazionalita: Drammatico
  • Regia: Shinya Tsukamoto