Sala della Casa del Cinema finalmente gremita di giornalisti, ma straordinariamente silente, in religioso rispetto e contemplazione di un evento filmico che passerà alla storia del teatro con la maiuscola iniziale.
Un monologo della durata di circa ottantacinque minuti, sostenuto senza pause, privo di cambi di scena o d’abito, in un’ambientazione da sogno… mitologico.
Un palcoscenico vastissimo, con, al centro, una poltrona, una lampada da terra irradiante una calda e ambrata luce domestica, un tavolinetto per poggiarvi una brocca d’acqua e un inseparabile bicchiere in vetro dal sapore stantio di madia domestica, valigie a mo’ di bauletti da emigrante, contenenti mattoni e mattoni di libri a fondare, unitamente agli altri fratelli, disposti, con ordine, l’uno sull’altro, una fortezza inespugnabile di Storia e storie, di una persona-personaggio, fondamentale per l’intera umanità, la sua letteratura, la sua civiltà, le sue origini.
Il fondale non è dipinto e non è fatto di pesante tela, ma di rocce che diventano schermo imperfetto per proiezioni di proiezioni “cuntate”, evocate, rimuginate da un interprete d’eccezione di nome Andrea Camilleri dalle mille, già incarnate, professioni nel mondo dello spettacolo a cui ha accluso quella di attore all’età di novantatré anni, mandando giù, a memoria, pagine e pagine di un copione firmato…guarda caso, dall’omonimo drammaturgo Andrea Camilleri.
Siamo in Sicilia, in una notte prossima all’estate del giorno 11 giugno 2018, nel Teatro Greco di Siracusa, i cui quattromila posti a sedere sono tutti occupati ed un miscuglio sapiente di lingue, linguaggi e dialetti (siculo e romanesco vanno d’amore e d’accordo anche nell’ambito delle rappresentazioni classiche commissionate dall’Istituto Nazionale del Dramma Antico) entra come un fluido nelle viscere di chi vede e ascolta, seduto nell’atto di lasciarsi rapire, quasi magare, da un lungo ed affascinante racconto. Proprio dalla Sicilia, la greca Trinacria, la più grande delle isole della Magna Grecia, “cuntare” è (anche) un’arte sia che per argomento si convochino le eroiche imprese di cavalieri e dame portate alla ribalta dai Pupari, sia che, nella parte di questi ultimi, vi siano autrici superbe come la compianta Goliarda Sapienza o la contemporanea Elisabetta Agnello Hornby. “Cuntare” dall’alto della preziosa carriera di Andrea Camilleri, dinnanzi alla quale ci si può soltanto inchinare, coincide con un doveroso quanto saggio atto d’amore verso il pubblico di affezionati lettori e, in tal caso, di spettatori, mutandosi necessariamente in un “fare i conti” con tutto… Con l’età, un passaporto che scadrà nel 2024 e la perdita irrecuperabile della vista. Di chi altro avrebbe potuto conversare, con un geniale colpaccio da modernissimo professionista del teatro, Andrea Camilleri se non di un cieco, veggente, uomo e donna al tempo stesso di nome Tiresia?
«Io so cosa fare a Siracusa, sarò Tiresia». Queste le parole pronunciate dallo scrittore di cui è stata testimone, come ormai da ben sedici anni, di ogni suo passo, Valentina Alferj che ha seguito, per mesi, le mirabili imprese di un attore alla sua prima esperienza ufficiale di recitazione, aiutandolo, in mancanza di occhi capaci di leggere e di memoria visiva, a scegliere pause, ritmo, tono, silenzi, gesti per far vedere con la voce quello che ai suoi occhi non è più possibile mostrare.
La regia teatrale e la ripresa cinematografica a cura rispettivamente di Roberto Andò e Stefano Vicario mostrano un ingresso in scena quanto mai singolare per la freschezza di un gioioso e semplice gioco di fanciulli di diverse età…Il trenino, in cui ognuno cammina in avanti poggiando le mani sulle spalle del compagno di fronte. Andrea Camilleri è entrato in questo modo trascinandosi un po’: a stringergli le mani per fargli da guida Valentina Alferj seguita dai suoi figli, dai nipoti dello scrittore e da altri bambini. Tecnicamente si potrebbero citare, per convalidare quanto ho visto sullo schermo e voglio, in parte, descrivere, le funzioni teatrali del coro greco, (mai spazio scenico fu più precipuo) il suo incedere, i suoi interventi, il suo congedarsi, la sua vicinanza, per condivisione di idee universali al drammaturgo di turno, ma riportando ancora qualche stralcio delle note di Valentina Alferj, si comprende che, in un certo senso, le antichissime leggi governanti il dramma sono tradite e, allo stesso tempo, rispettate alla perfezione. Oltre a non dimenticare il “merda” propiziatorio di un gatto nero spuntato, dal nulla, la sera del debutto, in camerino «Mentre percorrevamo il palco, accompagnati dai miei figli, dai nipoti e dai bambini vicini a Camilleri, i quattromila spettatori erano in silenzio, si sentivano le cicale. Erano venuti tutti a dire:”Grazie, Andrea”».
Così dovrebbe iniziare ogni spettacolo teatrale giovandosi di un’osmosi benefica fatta di felicità, orgoglio, impegno, onestà e caduta di timori, paure, incertezze. Per farlo, avrebbe bisogno di un attore all’altezza del compito affidatogli ed Andrea Camilleri si è dimostrato in grado di recitare come altri sedicenti colleghi non sono ormai più in grado di fare. Non ha dimenticato una sola parola del lungo copione. Ha sfidato l’immobilità ieratica della sua posa, articolando, attraverso sapienti parole, le “avventure” di Tiresia, un malcapitato uomo senza requie carpito, manipolato, stritolato dalla Letteratura di qualsiasi latitudine, ad uso e consumo del demiurgo in vena di citarlo o riscriverne la vera biografia, viaggiando in alto mare, da una delle prime apparizioni nei versi dell’aedo Omero fino ad arrivare al tripudio del Novecento, il secolo breve. È interessante, prima di proseguire, evidenziare il genuino coraggio che Andrea Camilleri ha avuto nel concepire e metter in scena, in tal modo, il suo spettacolo: avrebbe potuto optare per brevi interventi, frammentare e lasciare ad altri attori il ruolo di Tiresia…insomma “faticare” e “rischiare “di meno. Molti attori odierni considerano il monologo un atto quasi onanistico, per cui sentendosi troppo “soli” preferiscono la mera lettura “recitata” dei testi selezionati convinti che il fruscio delle pagine girate sul leggio, i movimenti di mani e braccia mulinate al vento, gli sguardi intensi fatti piombare a dovere su qualche malcapitato individuo distratto in sala, servano a costruire una partitura memorabile…La verità più intuibile, a giudizio di chi scrive e che ha vissuto l’esperienza di recitare in teatro un monologo di un’ora e venti minuti è che la staticità di Camilleri, la fissità del suo sguardo oscurato da lenti rosse, la totale fermezza della narrazione fuoriuscita in un vortice di libertà aggressiva e festosa come i mali dal vaso di Pandora, confermano ancora una volta quanto il segreto del successo di uno spettacolo risieda in un ingrediente chiamato “semplicità” e che se si è bravi, si è bravi. Punto. Gli orpelli restano tali e salvano ben poco situazioni precarie. Al massimo, distraggono il pubblico autorizzato ad autointrattenersi e consolarsi guardando il cellulare, sistemando borse e zaini, rigirandosi nella poltrona, bevendo acqua. I reading ammissibili, nella maggior parte dei casi, dipendono dalle opere da divulgare: si può leggere cioè un sonetto di Shakespeare facendosi strumento intimo di una melodia, di un canto in grado di resistere a moti di rovina, senza poter e dover interpretare; al contrario la stessa operazione non va compiuta con Pasolini, Shelley, Byron, Keats ecc…
Gli spettatori del Teatro Greco di Siracusa, di fronte a Camilleri/Tiresia sono rimasti di sasso, come mansuete vittime di un incantesimo ed hanno seguito, a bocca aperta, parola per parola, tutta quell’appassionante vicenda cominciata dai vibranti “suoni” «Tiresia sono. Questa sera io, Tiresia sono qui, di persona, personalmente…». Andrea Camilleri ha indossato metaforicamente i panni double face della persona e del personaggio esattamente come ha reso un accogliente salotto domestico, il palcoscenico del Teatro Greco offrendo alla visione dei suoi numerosissimi ospiti una cangiante carta da parati fatta di immagini sempre diverse relazionate al discorso profferito di volta in volta.
Veniamo ora al fulcro della “Conversazione” incentrata su Tiresia di cui tanto, da secoli, si ciarla, ammorbando delle di lui profezie tra i banchi di scuola e sui palcoscenici teatrali tra un Edipo vedente ed uno colto da cecità, ma pochissimo e men che meno correttamente di lui scrivendone: Camilleri entra ed esce da Tiresia uomodonna che per molti anni lo ha incuriosito, senza potersene occupare compiendo in scena una metamorfosi di punti di vista, di tempi verbali, pronomi personali e quant’altro c’entra con grammatica e sintassi per essere uno e doppio in odore di eternità.
«Ho trascorso questa mia vita ad inventarmi storie e personaggi. L’invenzione più felice è stata quella di un commissario conosciuto ormai nel mondo intero. Da quando Zeus, o chi ne fa le veci, ha deciso di togliermi di nuovo la vista, questa volta a novant’anni, ho sentito l’urgenza di riuscire a capire cosa sia l’eternità e solo venendo qui posso intuirla, solo s queste pietre eterne».
Grazie al monologo di Camilleri e alle musiche composte ed eseguite in scena da Roberto Fabbriciani, per nulla invasive o sostitutive, ma in grado di arricchire e sottolineare, con l’ausilio di un flauto ed alcuni strumenti a percussione della tradizione popolare, concetti ed episodi chiave, Tiresia rivendica a buon diritto, abbastanza infuriato, per le ingiurie subite, le sue vere origini demolendo punto per punto le inesattezze e le nefandezze pronunciate contro di lui sporcandone il nome e condannandolo ad una damnatio memoriae inesorabile. Qui mi fermo e non vado oltre. Per tener accesa la luce sulla santa cecità di questo spettacolo, mi taccio e ne consiglio vivamente la visione. Quattro faldoni di materiale raccolto in circa venti giorni, oltre tre mesi di studio matto e disperatissimo per giungere ad una sintesi in grado di ridare dignità ad un cieco presunto ermafrodita e pure, disgraziatamente, indovino dettando, riascoltando e memorizzando la versione migliore di un’arringa in propria difesa, non da morto, ma da vivo in un ciclo di esistenze giunto alla settima tappa ed infine un libro di prossima uscita edito da Sellerio, contenente il copione per intero dell’unicum siracusano. Il Tiresia di Andrea Camilleri che, come lui, escluso ogni paradosso, da quando ha perso la vista, vede più chiaramente e meglio di prima, transita per Omero, Sofocle, Ovidio, Orazio, Seneca, Giovenale, gli scrittori Protocristiani, Dante Alighieri, Angelo Poliziano, Milton, Eliot ed Ezra Pound come “correttore di bozze” degli oltre seicento versi iniziali de “La terra desolata”, fino a coinvolgere Apollinaire e le mammelle di Teresa/Tiresia, Virginia Woolf, Borges, Cesare Pavese, Primo Levi, Dürenmatt ecc… L’excursus simile ad un itinerarium mentis in Zeus e poi col cristianesimo in Deum, ingloba altre arti come il cinema restituendoci Tiresia nel film “La dea dell’amore” di Woody Allen, nella pellicola “Edipo Re” di Pier Paolo Pasolini senza dimenticare la musica con “Oedipus Rex “di Strawinsky e il brano dei Genesis “The cinema show”. Correva l’anno 1973 quando questi ultimi cantavano“Take a little trip back with father tiresias, Listen to the old one speak of all he has lived through. I have crossed between the poles, for me there’s no mystery.Once a man, like the sea I raged,Once a woman, like the earth I gave.But there is in fact more earth than sea”.
Insieme a Conversazione su Tiresia, altrettanto interessante, perché parte integrante dell’evento, è stata la conferenza stampa durante la quale, in presenza di Roberto Andò, Stefano Vicario, Carlo Degli Esposti, Valentina Alferj ed Andrea Camilleri ho posto alcune domande al Maestro approfittando, sul palcoscenico di Siracusa, del congedo dal pubblico, ricomponendo i vagoni del medesimo “trenino” iniziale inserito nel film ed espresso da tenere parole di augurio per un arrivederci tra cento anni.
Ho chiesto pertanto cosa avrebbe da dirci Tiresia o Andrea Camilleri tra cento anni se gli fosse data l’opportunità di reincontrare tutta l’umanità come accaduto al Teatro Greco. Nell’apprezzare, ridendo di gusto, il mio quesito, Andrea Camilleri (o Tiresia? …il beneficio del dubbio è d’obbligo) ha così “vaticinato”: «Tra cento anni, l’uso della parola ci sarà. Credo che molte cose che stiamo vivendo in questo momento e non faccio Tiresia, non faccio cioè le previsioni, saranno obsolete. Non so che mondo ci sarà tra cento anni, ma credo che avrà poco da dividere con il mondo di oggi, con il mondo a noi contemporaneo.».
La seconda, rivolta sia a Camilleri che al regista dello spettacolo Roberto Andò si è incentrata sull’ipotesi di un passaggio di testimone ad un altro attore, necessariamente più giovane per portare lo spettacolo in tournée nei teatri italiani e riconquistare le masse “cuntando” ininterrottamente una storia mitica-mitologica e popolare al tempo stesso. Mi sono dunque interrogata sulla fattibilità di riprodurre la suggestione e l’emozione che una ripresa cinematografica di uno spettacolo teatrale non a camera fissa, può dare, facendolo (ri)tornare a casa, cioè a teatro. La mia riflessione nata sull’onda delle ottime potenzialità commerciali di un lavoro del genere, rese incontrovertibili dalla praticità di una minimale scenografia “prêt-à–porter” e dall’impossibilità di ripetere la performance in un ciclo continuativo di repliche, si è già proiettata sulla fruizione attoriale del testo teatrale “Conversazione su Tiresia “ la cui pubblicazione è prevista, come annunciato in precedenza, per marzo 2019.A giudizio di chi scrive, Conversazioni su Tiresia sarebbe un ottimo spettacolo teatrale, al pari dei grandi monologhi trascinatori di folle (pensiamo ad esempio a Paolini, Celestini ecc…) in grado di riportare serenamente il pubblico a teatro recuperando l’antica funzione di educazione e catarsi. Pertanto la risposta un po’ piccata di Roberto Andò mi ha negativamente stupita, ma la trascrivo, di seguito, per dovere di cronaca: «Non è vero che la gente non va più a teatro. Il teatro anzi resiste molto bene, più di quanto si creda. Siamo in questo caso di fronte ad un evento fuori dal comune perché era in ballo una personalità fuori dal comune. Io personalmente, non potrei rifare questo spettacolo senza Andrea Camilleri. La cosa straordinaria è che siamo in presenza di uno scrittore, un grande scrittore, un testimone e un attore. Questa coincidenza di tre figure è unica ed è da brivido. A me è capitato di vedere lo spettacolo accanto ad un pubblico tra le migliaia di persone che c’erano quella sera e, ad un certo punto, dopo che Andrea aveva citato i versi di Ezra Pound, la moglie di una coppia siculo-americana, ha detto al marito, prendendolo, per il braccio, in siciliano:” Segnati questo nome, Pound, picché questo ne l’amma accattari”. Ora, quanto avvenuto vale epoche, civiltà. Non c’è nessuno che possa arrivare a creare un ‘energia di quel tipo. Un attore capace di recitare e ricreare quella stessa situazione non lo troverei mai. Non troverò mai un attore all’altezza di Andrea Camilleri».
Mi sarebbe piaciuto vivamente ascoltare la versione di Camilleri e coinvolgerlo in un discorso prepotentemente teatrale per chiamare in causa anche il suo primo amore e gli albori della sua carriera sul carro di Tespi, giacché dopo gli studi girgentini e palermitani, nel 1949, egli arrivò a Roma vincendo in qualità di allievo-regista,una borsa di studio offerta dall’accademia d’Arte Drammatica intitolata oggi a Silvio D’Amico. Mi riservo, come sempre, di non demordere e di ripresentarmi al cospetto di Camilleri, curiosa ed avida di risposte, con, tra le labbra, la stessa domanda di pochi giorni fa, tra cento anni, quando, (ne sono sicurissima), ci reincontreremo, tutti e tre appassionatamente in una delle nostre nuove vite: Tiresia (a quota otto), Andrea e me.