Non ci sono dubbi: la protagonista del romanzo di Ian McEwan, La ballata di Adam Henry, non avrebbe potuto incontrare al cinema interprete migliore di Emma Thompson, che, ancora bella e sempre raffinata, sa schermare le emozioni facendole poi trasparire con l’espressività appena percettibile del viso e dello sguardo, e la gestualità trattenuta che le appartiene. Qui, in Children act – Il verdetto di Richard Eyre, è un giudice familiare costretta a confrontarsi con quella che McEwan definisce “umana monotonia”. Storie di divorzi, soprattutto, con “i figli come pedine su una scacchiera, moneta di scambio pronta all’uso da parte di madri vittime dell’abbandono economico o affettivo da parte di padri. Manovre degne di nazioni al termine di una guerra” (Ian McEwan).
Fiona attraversa i casi che il lavoro le sottopone con abitudine e saggezza, ma quando l’umana monotonia s’insinua a casa sua, quando il rapporto con il marito, Jack (Stanley Tucci), da consuetudine diventa aperto conflitto, il mondo sembra crollarle addosso. Strana coincidenza, o forse no, è proprio in questo momento che avviene l’incontro con Adam (Fionn Whitehead), un ragazzo quasi maggiorenne, malato di leucemia, figlio di una coppia di testimoni di Geova. Entrambi rifiutano, e lui con loro, la trasfusione che potrebbe salvargli la vita. Al di là di ogni protocollo, Fiona, che deve decidere sulla vita o la morte di un ragazzo ancora minorenne, se pure per pochi mesi, va a conoscerlo e da questo momento la narrazione, pacata, si fa thriller dell’anima, sconvolgimento tenuto faticosamente a bada. Semplicistico vedere in Adam solo il figlio mancato, anche se per la perdita d’intimità con il marito e il senso di vuoto che si affaccia nella sua vita, certo, non avere avuto figli conta. E lei per lui non è solo un sostituto genitoriale, compensativo dei genitori veri, colei che gratuitamente gli vuole restituire il futuro senza pregiudizi religiosi, o morali, bensì nel rispetto della legge e di un’umanità laica, con cui Adam non ha mai potuto confrontarsi.
L’attrazione fisica viene accennata con una pudicizia che sfiora il sacrilegio, e che, comunque, non spiega l’intensità del legame. Tra loro, un rispecchiamento inesprimibile, stupito, capace di rompere gli equilibri interiori, al quale Adam confusamente vuole dar voce; chiede che Fiona lo guidi, gli insegni come vivere, lo aiuti a ritrovare l’identità perduta insieme alla fede. Lui, giovane e sciocco, come dice la canzone Down by The Salley Gardens tratta da Nel bosco dei salici di Yeats che hanno cantato insieme in ospedale (le canzoni giuste al momento giusto arrivano sempre all’emozione nel cinema e questa non fa eccezione); lei chiusa nel suo rigore professionale, dopo quell’unico momento libero e condiviso. La responsabilità delle scelte che solo ora comincia a pesare, insieme alle sicurezze che vacillano. Le vite di Fiona e Adam non potrebbero essere più diverse, ma le loro solitudini si riconoscono.
Che compostezza è riuscito a dare il regista a una materia così drammatica, al già composto libro di McEwan! Ha persino tagliato i pochi insulti tra i coniugi presenti nel romanzo, senza far perdere credibilità alla crisi matrimoniale. Dialoghi misurati, scene eleganti, recitazione impeccabile, eppure mai un momento di freddezza, né una piccola caduta di tensione; al contrario, pena e struggimento nel rendere le ragioni del cuore. Un unico rammarico per questo film bello e doloroso: avremmo voluto che, soprattutto verso la fine, il testo filmico, fedelissimo a quello letterario (d’altra parte la sceneggiatura è dello stesso McEwan) non ricorresse a un paio di svolte narrative chiaramente funzionali all’intreccio, assenti nel romanzo, dove le sorprese sono quasi tutte solo psicologiche, ma ugualmente avvincenti.