Fai bei sogni, un film del 2016 diretto da Marco Bellocchio, interpretato da Valerio Mastandrea e Bérénice Bejo. Il film è basato sul romanzo autobiografico omonimo di Massimo Gramellini ed è stato presentato alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes 2016. Con Guido Caprino, Barbara Ronchi, Nicolò Cabras, Dario Dal Pero, Emmanuelle Devos.
Sinossi
Nel 1969 a Torino Massimo, un bambino di nove anni, perde la madre in circostanze misteriose. Qualche giorno dopo, il padre lo porta da un prete che gli spiega come la madre sia oramai in paradiso. Massimo, però, si rifiuta di accettare tale brutale scomparsa. Decenni dopo, nel 1990, Massimo è divenuto un giornalista realizzato ma il suo passato continua a perseguitarlo. Così, quando deve vendere l’appartamento dei genitori, le ferite della sua infanzia si trasformano in ossessione.
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Marco Bellocchio torna con un film chiaro, lineare, poetico, in cui affronta senza fronzoli, arrivando diritto al cuore del problema, la questione della perdita della madre, ovvero della deflagrazione dell’immaginario, che si sgretola, si inabissa, afflosciandosi su se stesso come gli orologi penzolanti di tanti quadri di Salvador Dalì. La potenza simbolica di Fai bei sogni, presentato alla scorsa edizione del Festival di Cannes nella Quinzaine Des Réalisateurs, risiede in ciò a cui non smette di fare segno, al di là dell’effettiva narrazione, a quel fuori campo in cui si realizza il processo di creazione delle forme, prima che si consolidino in figure stabili e visibili.
Massimo (Valerio Mastandrea) è un uomo impietrito, che ha congelato la propria vita emotiva in seguito alla prematura morta della madre, persa nell’infanzia a seguito di un misterioso e tragico evento. Quella verità negata produce nel protagonista una tendenza sistematica alla chiusura emotiva, che lo rende un tipo taciturno, schivo, incapace di costruire legami affettivi, costringendolo a una solitudine che lo bracca ovunque vada. Eppure il bravo giornalista non smette di indagare per scoprire quale fu la vera causa del decesso dell’amata madre (stupefacente l’interpretazione del bambino Nicolò Cabras, che restituisce in maniera commovente il dolore lancinante per l’improvviso lutto, e assai brava anche Barbara Ronchi).
Non saranno gli incontri o le nuove situazioni a trascinare Massimo fuori dal suo dramma, ma un lento e costante lavorio interno che lo conduce allo svelamento di ciò che non aveva mai smesso di tenerlo in ostaggio. Non è neanche la scoperta della verità a innescare quella guarigione che pare profilarsi alla fine del film – liberamente ispirato al romanzo omonimo di Massimo Gramellini -, piuttosto è l’eroica resistenza che il protagonista mette in atto, non concedendo alcunché alla distrazione, alla chiacchiera, all’equivoco, alla curiosità (tanto per scomodare il gergo heideggeriano).
Come fa notare lo stesso Bellocchio, il superamento della malattia di vivere non si può mai considerare definitivo, e diviene paradossalmente auspicabile che si ritorni ad assumere quell’atteggiamento etico rigoroso che non scende a patti con la rumorosa parata del mondo quotidiano. Massimo è un eroe, se guarisse definitivamente diverrebbe l’ennesimo esemplare da inserire nella batteria umana del consumo e degli atteggiamenti indotti. Lui no, non parla, bisbiglia, balbetta, ma scrive, scrive molto, tessendo una silenziosa tela intorno all’eccedenza di una verità di cui è ostinatamente sulla traccia.
Meravigliosa la sequenza in cui assistiamo alla risposta data a un lettore che denunciava apertamente l’odio provato per l’inopportuna madre: Massimo replica facendogli notare quanto molto spesso i gesti d’amore siano invisibili, nascosti, e l’importanza di avere ancora un genitore in vita. A questa dichiarazione zuccherosa consegue un’immediata ironia (quasi impietosa) che neutralizza (sapientemente) tanta retorica, producendo un riso che libera, che non concede sconti.
Non è l’amore per Elisa (Bérénice Bejo), il medico che lo aiuta durante un improvviso attacco di panico (e ci mancherebbe anche l’infermiera ‘per amor dell’arte’, seguendo le suggestioni dell’Amleto di Laforgue), ad agevolare l’affrancamento di Massimo, piuttosto è il suo rimanere tenacemente in situazione, il suo rendere la malattia un elemento positivo, un qualcosa che costituisca una risorsa, accettando con gioia l’idea di essere sempre irrimediabilmente decentrato, in ritardo, rispetto a quel movimento tumultuoso che è la vita. Nuove ed entusiasmanti figure dell’essere vengono alla luce, ma esse non sono dentro al quadro, esorbitano i limiti del supporto, si trovano altrove, ed è proprio nel non cessare mai di indicarle che risiede la sovrumana statura etica di chi non cede alle lusinghe di una felicità a buon mercato.