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Interviews

Intervista a Giampiero Frasca, autore di La Suspense – Forme e Modelli della tensione cinematografica

Dino Audino Editore ci ha spesso presentato saggi utili per la realizzazione cinematografica, a vari livelli di sviluppo ed esperienza. Non fa eccezione La Suspense – Forme e Modelli della tensione cinematografica di Giampiero Frasca, che esplora le dinamiche della creazione di quello che nella narrazione cinematografica è il sale di un prodotto ben riuscito. Ne parliamo con l’autore.

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LA SUSPENSE Forme e Modelli della Tensione Cinematografica

Giampiero Frasca

Dino Audino Editore

124  Pagine

Dino Audino Editore ci ha spesso presentato saggi utili per la realizzazione cinematografica, a vari livelli di sviluppo ed esperienza. Non fa eccezione La Suspense – Forme e Modelli della tensione cinematografica di Giampiero Frasca, che esplora le dinamiche della creazione di quello che nella narrazione cinematografica è il sale di un prodotto ben riuscito. Ne parliamo con l’autore.

Salve Giampiero, nel suo libro si affrontano le dinamiche della costruzione della suspense attraverso aspetti che, inevitabilmente, arrivano a toccare aspetti psicologici, filosofici e morali dello spettatore in quanto uomo. Può esporre questo concetto ai lettori?

Senza il vettore fornito dalla psicologia del lettore/spettatore, la suspense sarebbe impraticabile anche per l’autore più capace ed esperto. Ancor prima di creare i suoi effetti sull’azione all’interno della narrazione, un regista, per rimanere nell’ambito del cinema, deve riuscire a modellare preventivamente lo spettatore. Al di là di qualunque eventuale valutazione morale sullo statuto dello spettatore, si tratta di un’autentica manipolazione. Si lavora sulla sua percezione e sull’empatia con i personaggi attraverso il criterio dell’identificazione, accresciuta se in pericolo si trova un divo amato dal pubblico. Se il personaggio è simpatico, se il pubblico proietta se stesso in lui o semplicemente se la vittima è particolarmente indifesa e si trova in una situazione di pericolo, lo spettatore si troverà obbligatoriamente a dover trepidare per la sua sorte, altrimenti non è entrato nel film, non lo sta vivendo con la partecipazione auspicata.

L’identificazione, tuttavia, è solo il primo passo nella costruzione. Il secondo è la natura dell’alternativa possibile. Secondo uno studioso del calibro di Noël Carroll, “la suspense si attiva quando l’esito di una situazione incerta propende verso un risultato intollerabile da un punto di vista morale”, ossia quando il protagonista che incarna i valori positivi sta per soccombere oppure quando una situazione eticamente inaccettabile sta per verificarsi. Certo, bisogna sempre rapportare l’etica alla cultura e alla tradizione del paese che realizza il film, però si tratta di sfumature, perché in linea di massima i valori umanitari di riferimento sono tendenzialmente (quasi) gli stessi (io non sono un texano degli anni Settanta ma, anche se non ho i capelli, non avrei mai applaudito la morte di Dennis Hopper e Peter Fonda al termine di Easy Rider solo perché erano capelloni trasandati, come invece fecero nelle sale del Deep South all’uscita del film).

La contraddizione di questa accezione morale si rivela tuttavia quando a essere minacciato è un personaggio negativo, perché in quei casi, se trattati opportunamente, subentra un meccanismo perverso a causa del quale si può provare trepidazione per chi, nel film, odiamo e vorremmo vedere neutralizzato. Hitchcock sosteneva che in particolari situazioni si può provare ansia anche per le sorti di Hitler. Non è proprio così, Hitchcock esagerava per amore di paradosso, perché non è sufficiente organizzare una situazione narrativa di minaccia per generare la lecita apprensione, però è vero che in determinate situazioni si attivano procedimenti neuronali particolari che, combinati con le questioni stilistiche appropriate, possono generare timori sulla sorte dei soggetti spregevoli.

Nel processo di identificazione qualcuno ha notato come è possibile identificarsi con un personaggio negativo (vedi l’esempio di Mientres duermes) ma con il proliferare degli antieroi, non è possibile che vi sia una ricerca di personaggi piu umani, e quindi una ammissione della natura non proprio benigna dell’essere umano? Nell’eroe cinematografico vi è una idealizzazione dell’essere umano, ma nel mondo reale la stragrande maggioranza della gente si comporta con una infinità di debolezze e meschinità. Che il personaggio cinematografico stia andando sempre più  in questa direzione?

La doppia natura esiste da sempre in letteratura, basterebbe pensare ai personaggi di Dostoevskij, tanto per citare un nome ovvio. al cinema, nella fattispecie in quello americano, l’antieroe compare nel secondo dopoguerra, complice la mediazione letteraria di Hemingway e il successo crescente del noir. tradizione che poi viene rinverdita nel cinema degli anni settanta con tutto il proliferare di vari eroi perdenti, scorati, disillusi e quasi mai completamente positivi (talvolta per niente). per cui non sarebbe affatto una novità. se poi vogliamo parlarne in relazione alla suspense e ai meccanismi identificativi, niente ce lo impedisce. è successo e succederà. 

Però con due accortezze: 1. spesso l’antieroe alla fine è sconfitto, per cui l’identificazione si attesta su un percorso di frustrazione da parte del pubblico. 2. Se la doppia natura dell’uomo è molto accentuata, se l’intenzione è un complesso scavo psicologico, ci può essere l’identificazione, ma non ci sarà la suspense, che è procedimento che privilegia l’azione (e che ha bisogno dell’azione per poter esistere) non l’introspezione.

Il suo saggio analizza i diversi punti di vista di numerosi saggisti che come lei hanno esplorato l’argomento. Può indicarci 3 di questi che ritiene fondamentali? Uno per lo spettatore, uno per il critico e uno per il filmmaker.

La celebre distinzione di Hitchcock tra suspense e sorpresa partendo dal caso di una bomba piazzata sotto un tavolo, mentre due personaggi sono impegnati in una conversazione, è ancora un momento di riflessione fondamentale, soprattutto per quanto riguarda il concetto di focalizzazione (chi sa cosa può succedere a scapito di chi non sa), che è una componente indispensabile nella creazione della tensione narrativa. Hitchcock era però anche in grado di sovvertire il suo stesso assunto, per cui la sua miglior lezione è nella pratica dei suoi film, ancora più che nelle sue parole. E non a caso è ancora uno dei registi più imitati dai film-makers, anche perché le sue modalità di costruzione sono diventate dei modelli dai quali non si può certo prescindere facilmente.

Gli studi sulla suspense hanno la peculiarità di entrare in contraddizione l’uno con l’altro, spesso perché ognuno persegue un ventaglio troppo ampio di ipotesi narrative possibili. Io penso che gli studi del già citato Noël Carroll (in Toward a Theory of Film Suspense, capitolo del suo volume Theorizing The Moving Image), le ricognizioni puntuali di David Bordwell (anche nei sorprendenti articoli che compaiono sul suo sito), i saggi di Meir Sternberg (Telling in Time II: Chronology, Teleology, Narrativity) e Raphaël Baroni (La Tension narrative: suspense, curiosité et surprise) mostrino una lucidità d’analisi e una profondità interpretativa che gli altri studi non possiedono. Ciò premesso, lo spettatore può farne tranquillamente a meno e saggiare il funzionamento della tensione ricorrendo esclusivamente alla sua esperienza di visione.

Nel processo di realizzazione di un film, in base alla sua ricerca, dove si trova maggiormente la suspense? Nella fase di sceneggiatura, di regia o di montaggio? Perchè?

In tutte e tre. L’organizzazione della suspense (e non della tensione, che è un concetto più ampio) parte dalla scrittura di ogni singola scena (e quindi in fase di sceneggiatura, mentre il soggetto fornisce una macrostruttura di tensione più ampia che è suspense solo nell’indirizzo della storia, non nel dettaglio). Prosegue poi nell’organizzazione narrativa degli elementi, nel loro ordine, nella caratterizzazione di ogni personaggio, nella rilevanza cognitiva che si fornisce a ognuno di loro. Si sostanzia attraverso lo stile della pellicola e nel linguaggio specifico adottato e si sedimenta con l’uso sapiente del montaggio. Che è altrettanto fondamentale, perché a volte un secondo in più o in meno nella giustapposizione dell’inquadratura successiva fornisce una percezione diversa dell’ansia che si vuole creare. È un procedimento sensibilissimo, di cui ci accorgiamo solo quando fallisce: è come quell’attimo sottile, impercettibile, impossibile da fissare che segna il passaggio del palloncino dalla possibilità massima di essere gonfiato alla sua immediatamente successiva esplosione. Marcello Mastroianni, ne L’uomo dei cinque palloni di Ferreri, ci è morto, nel tentativo di determinarne il momento preciso.

Le regole di cui parla sono applicate al cinema, alla lunghezza di un lungometraggio, ma a mio parere diventano più evidenti nella serialità delle nuove serie TV, dove la suspense, il colpo di scena, il cliffhanger, lo sviluppo dei personaggi sono più evidenti e netti. Cosa ne pensa di questo aspetto?

Nella serialità televisiva gli episodi in cui si attiva la suspense devono essere numericamente maggiori. È necessario che lo siano proprio per la lunghezza del suo sviluppo narrativo e per lo statuto che la regola. Prescindendo da True Detective, che sollecita altri meccanismi dilatativi che con la suspense c’entrano molto relativamente, il rischio di non ricorrere alle regole codificate della suspense è che lo spettatore non vada oltre il secondo episodio (una seconda possibilità si concede a tutti), e questo le serie non possono assolutamente permetterlo, pena la loro stessa sopravvivenza. Se non succede niente, e in questo includo anche i colpi di scena che sono l’antitesi della suspense perché appartengono al dominio della sorpresa, ma che sono altrettanto necessari per l’esistenza del racconto seriale, avviene il distacco del pubblico, che a una serie – tendenzialmente – chiede uno sviluppo narrativo forte, immediato nella sua struttura elementare anche se composito nell’architettura globale del progetto. È poi vero che la serialità televisiva ricorre agli stessi meccanismi di costruzione della tensione che caratterizzarono la nascita della serialità letteraria con i feuilleton della seconda metà dell’Ottocento: il procedimento del cliffhanger fu introdotto da Thomas Hardy in A Pair of Blue Eyes nel 1872 proprio per agganciare i lettori alla puntata successiva e obbligarli alla lettura. E il cliffhanger, nella sua natura dichiaratamente sospensiva, è ponte naturale per collegare una puntata all’altra e addirittura una stagione alla successiva, mentre nel cinema il suo utilizzo può preludere a un secondo episodio di una saga, oppure è eventualità che rimane sospesa per sempre (si veda il fantastico finale di Inception).

Le regole della suspense sono bene o male sempre le stesse, come abbiamo visto, ma vengono innovate con formule differenti continuamente. Può citare alcuni casi recenti di scene di film in cui lei ha notato che i concetti della suspense venivano usati in maniera innovativa e originale?

Penso soprattutto a due sequenze, ma non si tratta di momenti particolarmente innovativi. Non sarebbe possibile, perché le regole sono talmente codificate che si possono proporre solo piccoli scarti, eccezioni, non un sovvertimento completo, visto che il rischio sarebbe la mancata comprensione della scena. Una delle due sequenze è quella di American Sniper in cui Bradley Cooper tiene sotto tiro il bambino che, a sua volta, minaccia con un lanciagranate raccolto da terra un autoblindo americano. Allo spettatore interessa più che altro il dissidio morale di Bradley Cooper che si riflette sulla sorte del bambino, più che sulla vita dello stesso, di cui non sappiamo niente e che ci potrebbe provocare apprensione solo per la sua tenera età. Lo sparare o il non sparare diventano una questione esclusivamente interna al personaggio, alla sua intima natura e ai fantasmi inconsci che potrebbero assalirlo, mentre la potenziale vittima e l’autoblindo minacciato sono soltanto il pretesto per questa alternativa sconvolgente.

L’altro esempio è tratto da un film troppo sottovalutato come Blackhat di Michael Mann. Un uomo applica un congegno sotto l’auto dei protagonisti mentre questi, ignari, girano per le strade di Hong Kong. La domanda, lecita, è: si tratta di un rilevatore di posizione o di una bomba? Dopo tredici minuti, durante una scena sentimentale d’addio tra Chris Hemsworth e la sorella del suo collaboratore, che è seduto nell’auto in attesa che i due si salutino, la macchina, discosta sul lato destro dell’inquadratura, improvvisamente, salta in aria. L’esplosione è fulminea e lancinante. E solo allora viene in mente il congegno applicato sotto la macchina dalla mano ignota: eppure non è una bomba, era un rilevatore di posizione, perché l’esplosione dell’auto è dovuta a un commando che ha colpito l’auto con un bazooka dal fuoricampo. Il secondo colpo di scena corregge il primo, ma entrambi mostrano che il dominio è quello della suspense, perché la minaccia era stata rivelata al pubblico senza che i personaggi ne fossero al corrente. Mann ha fornito le caratteristiche della suspense preannunciando il pericolo (l’applicazione del congegno) e dando un vantaggio cognitivo al pubblico rispetto ai personaggi, ma poi ha dissolto volontariamente tale vantaggio facendolo smarrire lungo la dilatazione del tempo, fornendo, intanto, ulteriori dati e mostrando altre azioni fondamentali. Lo spettatore se ne ricorda solo al momento dell’esplosione, che giunge inattesa: in pratica, ha patito un colpo di scena che aveva le peculiarità della suspense, ma è stato portato di proposito fuori strada per mezzo di un articolato travestimento.

Spesso per comprendere i meccanismi dello storytelling è importante non tanto osservare l’esempio brillante di un processo, quanto quello erroneo. Può citare alcuni esempi di uso sbagliato della suspense in un film? Casi in cui ha detto “questo regista non è in grado di creare tensione”.

Creare tensione è un’arte. Molti ci provano, seguendo le regole che da sempre esistono, non è detto che tutti ci riescano. La maggior parte dei registi non fa altro che applicare le regole. Spesso, per volontà autoriale o per precisa scelta narrativa, alcuni registi del cinema europeo pongono le premesse e poi ne indeboliscono gli sviluppi. Ma questo è un altro discorso, molto più ampio. In genere, si nota una costruzione completamente errata della suspense nella stragrande maggioranza della produzione horror contemporanea, in tutti quei film, tanto per capirci, che poi vanno a infarcire il palinsesto di Italia 1. La tendenza di questi nuovi horror è la manifestazione improvvisa, il suono acuto inatteso, il montaggio rivelatore. La percentuale dei film horror in grado di costruire un’autentica tensione narrativa è molto bassa, perché spesso si parte da un presupposto sbagliato, benché sia noto da tempo, almeno dagli anni Quaranta, dalle produzioni di Val Lewton per la RKO: visti i low budget a disposizione (e quindi risibili effetti speciali e trucchi dozzinali), meglio dilatare la tensione fino a un punto limite, cercare di procrastinare il più possibile tale punto senza oltrepassare il confine del consentito, per non trascendere, evitando di mostrare direttamente la fonte della paura, per non generare risultati grotteschi o, peggio ancora, ridicoli. Farla intuire, non esibirla. La ricetta sarebbe di rincorrere la tensione, non di rivelarla, renderla perturbante piuttosto che tentare di presentarla terrificante, e invece molti, moltissimi, sicuramente troppi new horror hanno quest’ansia della rivelazione che vanifica tutto e la capovolge nel suo contrario.

Gianluigi Perrone

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