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Festival di Roma 2011: “La femme du cinquième” di Pavel Pawlikowski (in Concorso)

“La femme du cinquième” di Pavel Pawlikowski è un film che si presenta con un taglio d’autore, con una storia che si sviluppa sul filo dell’ambiguità, dove l’elemento magico si confonde con quello della malattia mentale.

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Uno scrittore americano (Ethan Hawke) torna in Francia per rivedere la figlia, dopo essersi separato, alcuni anni prima, dalla moglie. Il suo primo romanzo, “La vita della foresta”, ha avuto un discreto successo, ma, successivamente, un persistente blocco creativo gli ha impedito di produrre nuove opere. La moglie lo tiene a distanza, anche se l’uomo, seppur stravagante e naif, appare mite e, tutto sommato, innocuo. Privo di risorse finanziarie, trova alloggio in una modesta pensione gestita da un losco personaggio che, per farsi pagare la pigione, lo fa lavorare come guardiano notturno in un locale dove si consumano traffici illeciti tra alcuni personaggi della malavita locale.

Il tempo che ha a disposizione lo impiega per scrivere una lunghissima lettera alla figlia, che ogni tanto cerca di avvicinare, spiegandole che la sua assenza è stata causata da una malattia che lo ha bloccato in ospedale. Durante un ricevimento incontra una donna non più giovane, ma affascinante (Kristin Scott Thomas), con la quale intratterrà una relazione bizzarra ma ‘edificante’.

La femme du cinquième di Pavel Pawlikowski è un film che si presenta con un taglio d’autore, con una storia che si sviluppa sul filo dell’ambiguità, dove l’elemento magico si confonde con quello della malattia mentale. Canovaccio, questo, già ampiamente sfruttato (i primi illustri titoli che tornano alla mente sono The ward di Carpenter, ma anche Shutter Island di Scorsese) e che dimostra, per l’ennesima volta, un’insufficienza quasi strutturale, perché la suspence che produce viene sistematicamente frustrata da un didascalismo che, oltre a indispettire lo spettatore, fa collassare la sospensione narrativa, colmando brutalmente il vuoto che circola all’interno del racconto. Le atmosfere rarefatte si rivelano pretestuose e  l’orizzonte inizialmente aperto subisce un’improvvisa chiusura, dando corpo a quell’assenza che ‘sostiene’ la narrazione.

E dispiace, perché le visioni del protagonista avrebbero potuto, se trattate in maniera adeguata, dare un valore aggiunto al film, impedendo che la volatilità di ciò che eccede la rappresentazione ricadesse nella temporalità ordinaria.

L’unico elemento che chi scrive sente il dovere di salvare è il rapporto genitoriale: la rinuncia del padre nei confronti della figlia, pur di preservarla, è innegabilmente commovente. E la rinuncia è, probabilmente, il gesto etico più difficile da attuare.

Luca Biscontini

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