Kirill Serebrennikov (The Student e Leto) si prepara a tornare nelle sale italiane con la sua ultima opera: La Scomparsa di Josef Mengele. Adattato dall’omonimo romanzo dell’autore francese Olivier Guez, vincitore del premio Renaudot, il racconto ci porta a seguire la latitanza del medico nazista Josef Mengele nell’america latina tra il 1949 ed il 1978. Dopo esser stato presentato fuori concorso a Cannes, il film sarà proiettato in anteprima italiana al Trieste Film Festival il prossimo 20 gennaio.
Il ritratto intimo di un latitante
Come nella versione cartacea, anche la pellicola del regista russo ci porta a conoscere in maniera quasi intima il protagonista. Scappato dalle conseguenze delle sue azioni durante la Seconda Guerra Mondiale, Josef Mengele ripara in Sud America, vivendo da latiante. Tra il 1949 e il 1979, l’ex medico si sposta tra Argentina, Paraguay e Brasile, nascondendo la sua identità per sfuggire alla giustizia. La pellicola è una prospettiva in prima persona, focalizzata sul punto di vista del protagonista, interpretato magistralmente da August Diehl. Ne esce un ritratto freddo e calcolatore, un’interrogazione continua alla memoria collettiva ed al negazionismo contemporaneo, attraverso anche al rapporto del protagonista col figlio Rolf. Un continuo confornto con il passato, dove la storia solleva domande etiche alle quali non è possibile fornire facili risposte, all’ombra dei paesaggi sudamericani.
Una Mise teatrale sullo schermo
La Scomparsa di Josef Mengele è un’opera, non solo un racconto, una pellicola che si rivolge al presente, ricordandoci un passato che cominicia quasi a farsi lontano nella memoria collettiva. Con la sua regia, Serebrennikov ricompone il romanzo di Guez come un’opera di teatro in cui il peso psicologico del personaggio è a diretto contatto col pubblico. L’interpretazione di August Diehl, l’utilizzo del tedesco, la presenza di un cast europero si uniscono ad una fotografia che alterna la vasità degli spazi aperti sudametnicani e la claustrofobia degli interni. Ne esce un’opera che immerge lo spettatore nella tensione isolante della fuga, da un passato incancellabile le cui conseguenze sono pronte a raggiungerti in ogni istante. Il tutto, all’ombra di un personaggio freddo, musurato e moralmente ambiguo, che contribuiscono a riportare in vita l’atmosfera che si respirava in quegl’anni, quando il mondo spingeva per allontarsi dalla tragedia passata nel cosidetto “secolo breve“.
Non uno sguardo al passato
Nelle intenzioni del regista il film non è una semplice ricostruzione di eventi storici, ma un interrogatorio al presente. L’oblio ed il negazionismo sono minacce capaci di radicarsi nella memoria collettiva, alterandone la narrazione. Nel suo film vengono esposte responsabilità individuale e complicità sociale. Nessun pietismo ma domande scomode sul ruolo di istituzioni e cittadini. Mengele diventa così lo specchio di derive contemporanee di indifferenza, mentre la regia trasforma il racconto storico in monito civile. Un memeorandum necessario per saper riconosce il revisionismo nella vita pubblica e prevenire che certi errori possano ripetersi. Non una sterile rievocazione, ma una lezione da interiorizzare.
“Ci sono ancora oggi intellettuali che mettono in dubbio l’Olocausto. È per tale ragione che questo film doveva esistere”.