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Alice nella città

La fortuna di essere diversi: Maurizio Forcella racconta ‘Fortuna’

Il regista abruzzese racconta come da un racconto popolare è nato un corto sul potere di accettarsi.

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Con Fortuna, in concorso ad Alice nella Città, Maurizio Forcella racconta la diversità attraverso lo sguardo puro di una bambina segnata da “macchie di vino”. Un corto che trasforma la superstizione in poesia e la differenza in forza. Nel dialogo con il regista, emergono le radici di una storia vera, l’incontro con la piccola Flora Infante e con Ivan Franek, ma anche il desiderio di mostrare come a volte proprio ciò che ci rende diversi diventa la nostra più grande fortuna.

La protagonista riporta delle cosiddette imperfezioni agli occhi della società. Come è nata l’idea di mostrare in Fortuna le voglie piuttosto che altro? Perché comunque, appena c’è una piccola cosa diversa, tutti sono lì a puntare il dito.

In realtà tutto il progetto nasce da un progetto europeo che fa parte di un programma, un programma Erasmus+. Noi, con la mia associazione e altri due partner, una greca e una polacca, abbiamo indotto questo bando. Poi all’interno di questo bando abbiamo pensato di raccontare, di includere gli anziani attraverso il cinema nella società.

Questa roba qui è stata fatta con diversi output. Uno di questi era appunto intervistare delle persone anziane per farci raccontare un po’ della propria vita. E tra tutte le interviste in Italia, Grecia e Polonia, mi ha colpito particolarmente questa intervista di questa signora che aveva una sorella che appunto aveva queste due macchie sul viso, rosse, che lei le chiamava macchie di vino. Quando me le ha associate un po’ a questa sorta di rito legato appunto ad una credenza popolare, mi ha subito un po’, come dire, colpito. Sia nell’immaginare proprio delle voglie, quindi delle macchie rosse. Secondo me è molto bello anche visivamente immaginare appunto una bambina con due macchie solo sul viso, perché il viso poi nel cinema in generale è centrale, come nel primo piano.

Quindi ho pensato che potesse essere in qualche modo la chiave per raccontare una storia. Poi ovviamente, come ha potuto vedere, la storia è stata particolarmente, come dire, sceneggiata, un po’ modificata, però il centro di tutto quell’avvenimento è tratta di una storia reale.

Flora Infante racconta poi una storia bellissima, riguardo il pettirosso. Come è avvenuta la stesura della storia di Fortuna? E soprattutto che impatto ha secondo lei questo racconto sui più piccoli?

Fondamentalmente, quella era un po’ una sorta di storia di una bambina con le nuove generazioni, e comunque anche con gli adulti. Una favola del genere ascoltata con una sorta di intelligenza emotiva anche in quel momento del racconto, secondo me aiutava a far comprendere sicuramente il messaggio.

Ma poi a riportare quella poesia che ricerco in qualche modo nel mio modo di fare cinema, quindi fare entrare un po’ lo spettatore in una sorta di favola amara, è un qualcosa di ricorrente. Perché pure se c’è una sorta di miracolo, avviene sempre con una sofferenza, quindi fondamentalmente il concetto era un po’ questo: trascinare un po’ quella sofferenza anche in un’apparente favola. Una favola che però detta in quel contesto, in quel momento, diventa qualcosa di più struggente.

La figura invece di Ivan, dunque l’errante, chiamato dai genitori Zingaro sembra alla fine avere una certa complicità con la bambina? Come ha lavorato sul set o anche prima, per avere questa intesa così visibile?

Allora, in realtà abbiamo una certa sintonia, per cui mi capita spesso di coinvolgere Ivan Franek ai progetti. Anche con la bambina, molto bella secondo me, che mi ha aiutato molto. In fase di scrittura, io pensavo a Flora, che è un’amica, un mio amico. Tant’è che alla fine lei non faceva corsi di cinema, non è un’attrice, però è stato uno dei motivi per cui mi ha spinto a provare a chiedergli di partecipare.

Si creano ovviamente quelle alchimie, che è pure un po’ difficile da spiegare, che però vengono trasportate da tutto quello che c’era prima, quello che mentre scrivevo pensavo a lei. Questa cosa mi ha aiutato molto. E ha aiutato anche Flora, secondo me, perché stavo parlando di lei fondamentalmente.

Quindi questa alchimia, io ci tengo molto sul set, perché poi quando si gira un cortometraggio, lo dico sempre, ovviamente si gira in tre, massimo quattro giorni. Il mio è stato girato in tre giorni, e ovviamente se qualcosa non funziona in quel tempo così breve, tutto il lavoro ne risente. Quindi per me è molto importante riuscire a creare sul set una situazione intima, anche serena ovviamente. Non lo faccio solo con gli attori onestamente, gli attori forse sono lo specchio un po’ di tutto il set.

Mi ha colpita molto la regia che tenta in qualche modo di mostrare l’esilio di questa realtà così superstiziosa. Trova che questo sia lo specchio verso ciò che stiamo vivendo adesso? La superstizione?

Sì. Mi sono accorto nel tempo, la prima volta che mi interfaccio con questo tema, che quando si parla di superstizione anche le persone quando ti stanno ad ascoltare si fermano ed ascoltano più attentamente. Quindi secondo me dentro la superstizione, che è un tema così ancestrale e antico, spesso le persone provano a cercare delle risposte.

Poi parte tutto da lì fondamentalmente. E queste risposte che poi generalmente non arrivano, se arrivano forse sono nella nostra mente, quindi in qualche modo ci suggestioniamo dalla superstizione, sono un po’ un modo per stare meglio tutti. Quindi quando si parla di superstizione si parla di un tema così antico che in qualche modo, anche chi prova a parlarne si inserisce in qualcosa di contemporaneo sempre. Anche se lo faremo tra milioni di anni, perché forse appartiene all’uomo la superstizione.

Quindi da una parte è quasi un lasciapassare fondamentalmente per mettermi in contatto anche con il pubblico, che sembra un po’ una scorciatoia, ma in realtà è molto affascinante come concetto.

La fortuna che è anche il titolo stesso ha molteplici significati. Quanto l’essere fortunati, l’essere diversi oppure uguali, dipende insomma è effettivamente una fortuna. Lei come definirebbe la fortuna?

Certo, devo essere molto onesto. Io mi sono sentito in realtà un po’ diverso, ma senza nessuna fondamentalmente diversità. Però a livello di sentire le cose emotivamente, intendo, mi ha fatto sempre un po’ pensare di essere un diverso. E la cosa bella dell’essere diverso mentalmente, secondo me, è che con il passare del tempo si inizia a percepire appunto quella fortuna che forse inizialmente può sembrare quasi una tortura. Un qualcosa di tortura sbagliata, può sembrare una sorta di peso da portare addosso. Che in realtà nel mio caso per l’amore è diventata una fortuna, è diventata qualcosa che mi ha portato poi ad avere quello sguardo verso il mondo. Ovviamente indagando appunto con l’arte in generale, perché a parte il cinema mi occupo anche di fotografia.

E quindi credo fortemente nella fortuna del diverso, perché bisogna lavorare molto ovviamente sulla diversità, soprattutto quando ce la sentiamo addosso, ma da quel lavoro secondo me viene fuori un mondo che ci rende molto più ricchi. E poi aggiungerei anche fondamentalmente che questo nome è il nome di mia figlia, che è nata un qualche giorno prima delle riprese. Quindi in qualche modo si è creata una sorta di, anche qui intorno a questo titolo, una sorta di poesia.