I tuoi inizi nel mondo del cinema sono insieme al grande disegnatore Bruno Bozzetto.
Al Biografilm di Bologna, il 10 giugno, verrà presentato in anteprima un documentario che parlerà del mio mondo, della mia carriera, e comincia proprio con Bruno Bozzetto che racconta di quando mi ha assunto, come ci siamo conosciuti, come è nato il signor Rossi di Allegro non troppo. Questo per dirti la centralità di quell’incontro per me. Bruno Bozzetto è stato il primo mattoncino di questa mia avventura nel cinema. Lui è conosciuto in tutto il mondo. Pensa che quando John Lasseter l’ha incontrato si è emozionato, si è inginocchiato davanti a lui, chiamandolo maestro, dicendogli che sua figlia ha fatto una tesi in animazione proprio su Allegro non troppo! Bruno Bozzetto lo conosco da quando avevo vent’anni e lui trenta. Nonostante la sua fama, negli ultimi anni è riuscito a lavorare pochissimo e in maniera super indipendente, come sempre, del resto.
Il tuo è stato sempre un cinema molto eccentrico all’interno del panorama italiano.
Ho fatto un genere di cinema diverso, ma non credo di aver inventato niente. Ho fatto le cose che sapevo fare. Non mi sono mai posto l’obiettivo di essere eccentrico, originale. Scrivevo gag per i cartoni animati, facevo il mimo, per cui, quando sono passato al cinema, ho naturalmente portato quel mio mondo.

Il tuo esordio da regista con Ratataplan fu subito baciato dal successo.
Ho avuto la fortuna di andare bene con quel primo film, per cui sono stato subito considerato un autore, ma ho sempre lavorato senza soldi. Pure dopo il successo di Ratataplan, non mi volevano finanziare il secondo film. Ho continuato a mantenere un rapporto da indipendente anche con Franco Cristaldi. Lui, già nel 1982, diceva che il cinema non si poteva più fare. Aveva intuito dove ci stavamo dirigendo. Sosteneva che fosse fondamentale una legge che mettesse in ordine i passaggi televisivi e i diritti dei lavoratori del cinema. A causa del suo disimpegno, sono stato fermo alcuni anni, ma non sono andato a cercare un altro produttore, ho continuato a fare le mie cose e, quando ho ripreso con Ladri di Saponette, ho fondato una mia casa di produzione. Per cui quel film, Volere Volare, Stefano Quantestorie, Luna e l’altra li ho prodotti io, rischiando in prima persona, più indipendente di così… ho cercato di spendere meno possibile. Non ho mai fatto un film ad alto budget.
Pochi soldi, ma buone idee.
Erano tutti film già fuori moda quando sono usciti. A cominciare da Ratataplan, che non c’entrava niente con quegli anni lì, anche se poi l’immagine di quello che attraversa col bicchier d’acqua Milano è diventata l’icona della Milano da bere, mi hanno rubato l’idea, diciamolo simpaticamente. Del resto, io stesso vengo dall’ambiente pubblicitario. Sarà per questo che mi è venuto in mente di fare Ladri di saponette, che è il primo film al cinema che interrompe la pubblicità, giocando su questi due piani. Negli anni ’80, con l’invasione delle televisioni commerciali, questo è stato un tarlo che ha assediato, segnato e ossessionato il cinema, anche nel suo stile visivo. Ti racconto un aneddoto: per un altro film volevo mettere delle pubblicità vere, allora sono andato a chiedere all’agenzia della Ramazzotti, che mi aveva rubato l’immagine della Milano da bere, e loro non mi hanno dato il consenso, perché era una commedia e lo consideravano una presa in giro del loro spot.

L’impressione è che il rapporto che instauri con i tuoi attori diventi molto personale, tanto che ritornano diverse volte nei tuoi film.
Sì ed è anche il motivo per cui non faccio mai provini. Facciamo delle prove, ma sono già sicuro di chi è il ruolo. Da attore, so che andare a fare un provino è il momento peggiore della vita, perché ti devi far giudicare, devi conquistarti la parte. A me piace di più conoscere una persona. Se il personaggio l’ho scritto io, so già se un certo attore va bene per il film, anche perché dobbiamo lavorare insieme per mesi, se non anni, perché a volte il processo rimane appeso per anni. Forse esagero pure certe volte, però mi piace godermi la preparazione di un film. E qui torna la mia indipendenza, cioè non faccio mai film su commissione, in cui devo rispettare consegne date da gente che, magari, non sa leggere una sceneggiatura o mi fa fare cose che non mi piacciono o non vuole quello che ho scritto. Io, invece, voglio poter cambiare una sceneggiatura fino al giorno in cui giro, se mi accorgo che non funziona. Certo è un’indipendenza che ti isola, ti fa fare fatica, ti fa anche rinunciare a dei progetti.
Negli anni ’80 sei stato associato alla categoria dei “nuovi comici”, insieme a Carlo Verdone, Massimo Troisi, Roberto Benigni, Francesco Nuti e Nanni Moretti.
Eravamo tutti un po’ degli outsider e completamente diversi l’uno dall’altro. A proposito di comicità, Nanni Moretti aveva fatto Ecce bombo, un film che non considerava una commedia. Carlo Verdone, invece, era un comico che veniva dalla televisione. Io facevo il mimo e il teatro. A me è rimasta impressa una copertina dell’«Espresso» in cui c’ero io vestito da clown e, dietro, i “nuovi comici” di cui sopra; l’articolo all’interno era praticamente tutto su Carlo Verdone e il suo nuovo film… Io, se fossi stato Nanni Moretti, avrei accoltellato il giornalista, quello che faceva quelle robe lì, ma io non ho il carattere di Nanni, per cui ho preso il giornale, l’ho buttato via e ho smesso di leggere «L’Espresso». Nanni Moretti all’epoca si arrabbiava moltissimo se veniva associato a quel gruppo. Noi la prendevamo quasi come un’offesa, pensando ci considerasse talmente male da non voler essere nominato insieme a noi. Poi, nel tempo, lo abbiamo capito meglio e compreso perché detestasse quella semplificazione giornalistica.

Ecce Bombo
In quel periodo del cinema italiano sono nati molti autori che facevano i registi, gli sceneggiatori e gli attori di se stessi, soprattutto nella commedia.
È vero, abbiamo avuto il modello di Woody Allen, ma lui è un caso più unico che raro, non ce n’è un altro come lui. A parte Nanni Moretti, che era soprattutto regista, gli altri erano interpreti strepitosi. In quegli anni facevano così perché non c’erano sceneggiatori che volevano scrivere per la nostra generazione, diciamole queste cose. I grandi vecchi che c’erano prima di noi, persone stupende, che hanno fatto la storia del cinema italiano, erano tutti coetanei: Age, Scarpelli, Benvenuti, De Bernardi, Risi, Loi, Scola, Monicelli. Quando al cinema volevano rappresentare la nostra generazione chiamavano Vittorio Gassman o Ugo Tognazzi o Nino Manfredi e gli mettevano la parrucca, come in Contestazione generale. Riguardatelo, è un film che a noi faceva ridere, perché vedevi dei quasi cinquantenni con la parrucca che facevano i capelloni. Se vedevo Nanni Moretti era capellone davvero. Noi non ci riconoscevamo più in quel cinema. Tra fine anni ’70 e inizio anni ’80, c’era un disperato bisogno di trovare una nuova generazione: c’erano gli attori, ma non i registi e gli sceneggiatori. A un certo punto, persino Renzo Arbore ha fatto due film come attore, regista e sceneggiatore. Era diventato una specie di format. Se facevi il regista, l’attore e lo sceneggiatore ti prendevano già subito in considerazione, anche perché, in quell’unico pacchetto, c’era un risparmio non indifferente.

Contestazione generale
Questa tendenza venne a scomparire con la generazione successiva.
Sì, questa cosa deve aver esasperato, perché la generazione dopo di noi ha ritrovato i suoi ruoli, a parte la tendenza degli ultimi anni degli attori di nuovo registi. Margherita Buy e Valeria Golino, per esempio, adesso sono anche passate dietro la macchina da presa, ma ci sono arrivate dopo una lunga carriera da interpreti, è un fenomeno diverso rispetto ai nostri anni. Sinceramente, all’epoca, sarebbe piaciuto anche a me fare solo il regista o l’attore, invece di avere la responsabilità di interpretare, scrivere, dirigersi. Allora, se il film andava bene, il merito era dei geniali produttori che l’avevano finanziato (magari con quattro soldi), se andava male la colpa era totalmente tua. Non potevi neanche dire la sceneggiatura era debole o il regista fiacco…
Come riesci ad alimentare la tua visione immaginifica del mondo?
Appartiene al mio carattere. Cerco sempre di vedere la vita con ironia, leggerezza, che non vuol dire qualunquismo. Vengo da una generazione in cui l’impegno politico, l’essere di destra o di sinistra, erano cose serie, adesso ideologicamente è tutto più confuso. La mia generazione si è sempre presa le sue responsabilità, però questa serietà non ha mai appesantito il mio sguardo. Se sei troppo ideologico, anche in un film, perdi il distacco, la poesia, vuoi solo andare contro qualcuno. È il pericolo di ogni radicalismo, dell’integralismo religioso, persone che si credono unicamente dalla parte giusta e tutti gli altri sono cretini e arrivi a fare la guerra, a non risolvere nessun problema, invece di riuscire a dialogare, capire, ascoltare anche una persona che non la pensa come te.

Ladri di saponette
Il tuo ultimo film, AmicheMai, è uscito in sole 12 copie. C’è un problema di distribuzione in Italia?
Il film è uscito quattro mesi fa e ha girato comunque molto. È una distribuzione indipendente. AmicheMai si è visto in tante monosale, anche parrocchiali, nei posti più impensati, come mi testimoniano molti amici. Esistono ancora queste nicchie di appassionati di cinema, cineclub, comunità di aggregazione culturale. Per sopravvivere, queste monosale fanno multiprogrammazione, quattro/cinque film differenti in orari diversi. Le grandi produzioni escono in trecento multisale che ti proiettano quattordici volte quel giorno, un piccolo film come il mio una volta al giorno in una dozzina di posti. Prova a fare un conto della differenza di visibilità… Può finire che tu hai la media sala più alta d’Italia e l’incasso più sfigato. Il cinema è diventato un meccanismo distributivo. Praticamente va veramente bene solo il film che esce in quattrocento sale, anche per poche settimane, ma in un periodo buono, magari a natale, promosso con una campagna pubblicitaria costosa, che si autoalimenta, perché nella trasmissione televisiva lanci il film che ha incassato otto/dodici milioni di euro e allora la gente dice: «Stasera andiamo a vedere il film che tutti sono andati a vedere e che ha già incassato otto/dodici milioni di euro?». Io, con il mio piccolo AmicheMai, quanto posso aver fatto? Centomila euro? È andato in dodici sale di parrocchia, cosa vuoi incassare? Magari ho fatto l’esaurito, più di così non posso né chiedo. Però ti dà soddisfazione andare e trovare sempre il cinema pieno, non è da tutti. Persone che sono venute proprio perché volevano vedere quel film. Rimango e rimarrò sempre un indipendente, quelli che hanno la vera passione. Non aspetto che arrivi la piattaforma di turno a darmi i soldi.

A proposito di piattaforme, che ne pensi di queste nuove modalità di fruizione del prodotto visivo? Ci sono spazi per la creatività?
Non sono uno studioso di social, però, avendo fatto un film che parla anche di influencer e content creator, ho cercato di documentarmi su quel mondo lì, che non avevo mai frequentato. Quando ho finito di girare, ho visto che avevo un profilo Instagram con 1500 follower, che è una roba vergognosa, pare, per un regista conosciuto. Per esempio, avevo visto che il mio amico Gabriele Salvatores ne aveva 14mila. Lavorandoci dieci mesi, sono arrivato a 19mila, a Salvatores ancora non gliel’ho detto. Pubblico dei brevi video che risultano simpatici, evidentemente. Con una controindicazione, però: vai a fare la spesa al supermercato e, una volta mi riconoscevano perché facevo film, adesso per quello che pubblico su Instagram… Sono soddisfazioni, però è inquietante, non è il mio pubblico, ma ormai tutti hanno sempre il telefonino in mano. Devo dire che se dovessi costruire una carriera su questo sarei terrorizzato.
Nel tuo cinema, invece, dai l’impressione di divertirti.
Fare cinema è un grande sforzo, ma non bisogna aspettarsi nulla. Ho sempre fatto film per il piacere di farli, senza aspettative particolari. Sul set devo divertirmi, se manca il divertimento, allora non ha senso fare questo lavoro.
