Arriva in sala La solitudine dei non amati ( Loveable), il lungometraggio di esordio scritto e diretto da Lilja Ingolfsdottir. Il dramma è prodotto da Tommaso Robsahm, distribuito in Italia da Wanted Cinema e internazionalmente da TrustNordisk. Protagonisti del film Helga Guren e Oddgeir Thune.
Il TRAILER – La solitudine dei non amati
Sinossi – La solitudine dei non amati
Maria (Helga Guren) e Sigmund (Oddgeir Thune) stanno insieme da sette anni. All’inizio tutto sembra perfetto. Hanno costruito una vita insieme e hanno quattro figli, due da una precedente relazione della donna. Quando Sigmund le dice che vuole il divorzio, Maria non si arrende ma di scoprire chi è veramente e cosa può fare per rendere felice il suo futuro.
Gestire la rabbia – La solitudine dei non amati
Il cinema nordico europeo ci ha sempre abituati a scritture relazionali anticonvenzionali, a loro modo controverse, che sono sempre riuscite a rappresentare i sentimenti d’amore come una catarsi e una manipolazione vissuta dell’animo umano. È quello che cerca di fare La solitudine dei non amati, mettendo al centro una donna isterica, follemente appassionata e innamorata, che non riesce a farsi amare dal marito che la sta lasciando. Tutto va storto per Maria: deve caricarsi di una situazione in cui il peso famigliare è sulle sue spalle mentre il marito si concentra sulle ambizioni da musicista tra una tournèe e l’altra. I topoi bergamiani, dalla struttura di Scene da un matrimonio alla citazione dello specchio di Persona, sono abbastanza evidenti e consumati nel genere del dramma relazionale che ha come soggetti due coniugi in crisi.
Ma come direbbe il filosofo Stanley Cavell, qui del ri-matrimonio non vi è traccia. La regista Lilja Ingolfsdottir fa davvero di tutto per astrarre Maria dalla dimensione razionale di una convivenza civile. Ingloba e racchiude la donna in una prigione emotiva in cui la rabbia è lo specchio e il riflesso delle proprie azioni. A differenza di Ingmar Bergman, non si denota alcun dinamismo nell’elemento coniugale: il conflitto tra i due non prevede alcuna interazione ed è interamente direzionato dalla crisi interiore che vive la moglie, rimuginando su colpe che allo spettatore appaiono oltretutto inspiegabili. La solitudine dei non amati è, nei fatti, un romanzo di formazione imperfetto o un viaggio dell’eroina senza alcuna crescita. Ed è particolare che una regista donna abbia creato una storia di violenza psicologica dentro un patriarcato soft: innocente e apparentemente senza colpe.
La vittima maschile e quella femminile
Ne La solitudine dei non amati, Maria è oggetto di una violenza domestica psicologica, sussurrata, mai palesemente dichiarata perché la caratterizzazione del marito, Sigmund, è costruita in modo da orientare lo sviluppo della crisi verso le colpe della protagonista. Il personaggio maschile è un buon padre di famiglia, amorevole, soggetto alla rabbia di Maria, scontento di un atteggiamento vessatorio nei proprio confronti e quindi infelice. Nel suo esordio la Ingolfsdottir, sicuramente senza volerlo, delinea una femminilità tossica opposta alla componente maschile che la subisce, facendo comparire l’uomo come vittima del circuito isterico di Maria. Sigmund rappresenta sicuramente un profilo inusuale all’interno della scrittura autoriale femminile per come siamo abituati a leggere il cinema contemporaneo.
Se per la regista, l’atteggiamento della protagonista con le spalle al muro vorrebbe delineare una manipolazione psicologica orchestrata da Maria, la mancanza di uno sviluppo del personaggio e dell’evoluzione della moglie aumenta questa narrazione ambigua dove il colpevole è di fatto solo la donna in crisi. Il film distrugge Maria non solo come moglie ma anche come madre: nel rapporto di rifiuto con la figlia, il dramma relazionale annienta la dimensione materna delle donne, rendendo la donna un ostaggio del proprio nucleo famigliare rispetto al quale si sente estranea e fuori posto.
La non rinascita attraverso le immagini
Un merito de La solitudine dei non amati è quello di lavorare il tratto psicologico della vicenda attraverso un’estetica del montaggio piena di voice over e inquadrature discontinue, che riflettono le varie fasi del divorzio e della solitudine della protagonista. Già nell’inizio della formazione della coppia e nel seguente passaggio temporale dentro i turbamenti di Maria, è evidente il tentativo di mettere al centro un’analisi psicologica guidata da discussioni accese e violente a discapito di un’azione drammaturgica che nel film è volutamente inesistente.
Il problema del dinamismo del film e della protagonista risulta presto centrale. Perché da una donna così delineata nella sua rabbia ci si aspetterebbe una svolta, un cambiamento radicale, qualche pazzia in linea col suo personaggio. Invece, fin da quando Maria accetta di lasciare la casa su invito indiretto del marito, la protagonista passa tutto quanto il film a recriminare sé stessa, involvendo nel finale e accettando le proprie colpe. Sia nei colloqui con la psicologa che dopo, nella presa di coscienza dei contrasti col marito, Maria ci comunica che il suo vero problema è aver pensato solo a sé stessa, col torto di essere stata egoista per tutta la vita; come si evince nel confronto con la madre che non fa altro che costruire un colpevole condannato e pentito. Concludendo con una riflessione drammaticamente pericolosa: le donne devono cambiare per essere accettate.
La solitudine dei non amati è un film inconsueto in un’epoca dove le donne sono ritratte forti e ribelli. Maria e il film invece decidono di confrontarsi con l’interiorità di una dimensione femminile arrendevole e perennemente in crisi tra la propria accettazione e la felicità degli altri.