Ospite alla Mole Antonelliana di Torino martedì 6 giugno per ricevere il premio Stella della Mole in occasione del Festival CinemAmbiente, Pablo Larraín, autore di Tony Manero, Il club, Neruda e Spencer, tiene una lezione di cinema conversando con Grazia Paganelli e Marco Fallanca su una carriera di pellicole entusiasmanti e inconfondibili per la scomposizione delle iconografie del passato, per la critica del reale attraverso una sua reinvenzione plausibile ma immaginifica, per la distanza alle convenzioni di giudizio, per la ricerca sperimentale in registri e generi differenti.
Cinema politico della fantasia
Una ferita, un taglio, un trauma attanaglia gli uomini e le donne della filmografia di Larraín, che siano umili comparse della Storia o volti del Novecento, sottoposti agli ingranaggi spietati e sfuggenti di un sistema di potere subdolo, coercitivo, implacabile, anche violento, ma in cui lottando o soccombendo riescono a veicolare sfumati campionari di umanità.
Come è noto, nel retroterra culturale del regista cileno si imprimono le stimmate della dittatura del suo paese, del golpe di Pinochet contro la presidenza di Allende; ma le pellicole dell’autore non aspirano all’affresco d’epoca di magniloquente respiro, ergendosi in un panorama contemporaneo, ormai troppo avvezzo al rodaggio del biopic di consumo, come miniature di esistenze (celebri o anonime) dal destino scritto e compromesso dalla politica, con una forma narrativa anticonvenzionale che si inoltra nel sogno, nel doppio, nella fluidità caleidoscopica dei punti di vista e nelle asimmetrie stilistiche, nella sofferta e profonda introspezione al femminile.
Con un linguaggio che ricerca l’indagine analitica più che l’immedesimazione simpatetica, con un’estetica eclettica ma sempre coesa di immagini prosciugate, elegantemente funeree o pirotecniche, da Tony Manero passando per Post mortem, Jackie ed Ema, fino all’ultimo Spencer, quello del regista cileno si conferma cinema dell’identità e della memoria, della rivisitazione critica del mito nella Storia (la fantomatica Camelot dei Kennedy, la fiaba matrimoniale della famiglia reale britannica), della simbiosi tra politica e messinscena, della rottura controcorrente del singolo sotto le cadenze della morte, ma anche recentemente della dolce forza della genitorialità.
Danza macabra: alienazione e repressione di un regime
Discutendo su Tony Manero, primo successo di pubblico e vincitore come miglior lungometraggio al Torino Film Festival del 2008, ci si interroga sull’inaugurazione di una presunta corrente “antiempatica” del suo cinema, popolato da cileni impenetrabili, poliziotti scomodi, first lady algide, inquietanti principesse.

Progettando il racconto di un uomo disagiato nel Cile del 1978, così estraniato e ossessionato dal personaggio di John Travolta ne La febbre del sabato sera da commettere efferatezze, Larraín spiega di essere stato immerso dall’idea che attraverso la libertà si consegue l’empatia, mentre Tony Manero non distingue realtà e finzione; l’opera mette in scena la versione più folle del capitalismo, attraverso un personaggio magari detestabile, ma esentato dai nostri giudizi in quel contesto di soppressione di massa, poiché ne è un prodotto sociale che non può non suscitare vicinanza emotiva.
Angeli caduti e sterminatori
Per Post mortem invece Larraín chiama in causa l’idea di impunità dei criminali del regime, a cui è dedicata anche l’ultima fatica in post-produzione, El Conde, una dark comedy di futura distribuzione Netflix che vede Pinochet nei panni di un vampiro reso immortale proprio dall’impunità.
La pellicola del 2010, in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, trova nel dattilografo di un obitorio una metafora del Cile nella fase del golpe militare, quando tra orde di cadaveri di oppositori giunge agli occhi del mite e inerte protagonista il cadavere di Salvador Allende. Citando tra le ispirazioni Los Olvidados di Luis Buñuel, Larraín spiega che il personaggio è lì come testimone, ma non può fare nulla, diventerà a sua volta violento perché è quello che vede sotto i suoi occhi.
La sottrazione alla giustizia, tema caro alla sensibilità del cineasta cileno, viene declinata nella connivenza tra Stato e Chiesa ne Il club (Gran premio della giuria alla Berlinale del 2015), in cui una casa isolata vicino al mare funge da rifugio per sacerdoti corrotti, uno spazio astratto di radiografie psicologiche, non un teatro di accusa (estranea da sempre negli intenti espressivi dell’autore), ma un microcosmo di compromissione etica che nasce come
un film pensato per capire l’inferno sulla Terra, citando Michel Foucault.
Ci spiega inoltre Larraín che Il club inscena persone in libertà, ma in realtà imprigionate nei loro peccati, dove la vittima non è consapevole di quanto è successo e dove non c’è modo per affrontare le strutture del potere, aggiungendo che la religione ha creato guerra e sangue più di qualsiasi sistema umano; l’opera traccia il dolore della sua impunità intatta, ma nel paradosso della bellezza che emerge tra personaggi intaccati dal male.
(De)costruire il mito: alla ricerca perduta di Camelot
La masterclass è occasione anche per esaminare il meritevole apporto tecnico di film come No – I giorni dell’arcobaleno (2012) e Jackie (2016), in particolare sulla soluzione di continuità tra i filmati d’archivio e il girato di finzione in 4:3 ad opera del direttore della fotografia di No, Sergio Armstrong, così certosino da impedire al montatore di riconoscere la differenza tra le inquadrature d’epoca e quelle del set. Il rifiuto dell’8K e del 4K ad effetto “invecchiato”, quindi plasticato, è stato motivo ispiratore anche per alcune scene alla Casa Bianca in Jackie.
Proprio il ritratto della vedova Kennedy nelle ore successive all’assassinio del marito a Dallas apre un confronto su altre virtù tecniche dello sperimentalismo di Larraín, come quello sulla colonna musicale che qui potenzia il livello narrativo; precisamente nella memorabile sequenza ad episodi dove Natalie Portman vaga in mise elegante e sguardo nervoso e smarrito per gli appartamenti presidenziali, il brano cantato tratto dal musical Camelot è usato come motivo del funerale privato dentro la mente di Jackie.

Jackie
Sull’accezione del potere istituzionale espressa da Jackie, il regista ritiene che la politica corrisponda all’ideale della leggendaria Camelot (la mitica sede della corte amena di Re Artù), per il suo ideale di migliorare le vite umane, ma che alla fine riguarda solo se stessi e si ritrova a essere un apparato di finzione, quello che ricerca anche Jacqueline Kennedy, nel cui animo convivono forza e debolezze.
Le strane coppie di un paese ferito
Neruda (2016) ed Ema (2019) si configurano invece come nodo di congiunzione per l’approdo all’ultimo, acclamato e più popolare (anche per il soggetto così mediatico) lavoro, Spencer (2021); se il primo infatti è un biopic di rottura dal taglio espressivo onirico, il secondo esplora un mondo finora inedito per il regista cileno, quello della genitorialità: tendenze e interessi tematici che confluiranno insieme nella pellicola su Lady Diana.
Riguardo a Neruda, Larraín spiega che è stato determinante il contributo dello sceneggiatore Guillermo Calderón per dare articolazione all’idea di un Neruda consapevole della sua leggenda, per realizzare un film che fosse come un saggio letterario, dove la fuga da un investigatore (un po’ invenzione del protagonista stesso) diventasse una forma di poesia. Aggiungendo che Neruda è anche un film di fantasia, sulla fantasia e sul gioco della letteratura, l’autore riflette sulla messinscena estranea dalla logica binaria di campo e controcampo in adesione a un’accezione personalissima del racconto cinematografico:
Ogni film deve essere una mappa mentale perché la realtà è una continuità in divenire di situazioni.
Tra lo stupore divertito del pubblico, Larraín ammette con sincerità la propria inconsapevolezza sul processo di ideazione di Ema, film su una coppia disfunzionale e rovinosa di ex genitori e ballerini di reggaeton, che si erge per la sua alterità, con la sua assenza di baricentro, con il suo fragore di personaggi vitali ma malagevoli, con il suo ondeggiare estroso e deflagrante; nato alla luce dell’esperienza biografica di essere padre, è anche un film per capire generazioni diverse e che riflette la rabbia collettiva cilena.
Una favola tratta da un tragedia vera
Si approda quindi a Spencer, definito film sulla maternità, sull’identità e sui meccanismi di oppressione del potere, in una di quelle famiglie reali dove chi vi nasce è vittima di questa logica. Perché nelle dinastie regnanti non scegli nulla, vivi come in una galera sofisticata. È interessante il momento di rottura di Diana, la chiave di lettura per la protagonista è rendersi rende conto che la maggior parte delle risposte che cerchiamo sono nei nostri figli e che lei può essere se stessa in qualità di madre di quei bambini.

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Riconoscendo il contributo artistico di Kristen Stewart alla costruzione del personaggio, così stridente e così sfolgorante per nobile chiarore e fragilità, Larraín commenta una delle sequenze più intense e catartiche, quella ad episodi della danza tra i saloni vuoti, dove finalmente qualcuno che è sottoposto a costrizioni respira, mentre la cinepresa pare librarsi.
Spencer suggella quindi un percorso autoriale coerente e ancora aperto, dove motivi, generi e ricerca formale confluiscono in una grazia visiva fulgida e in un sottotesto politico come sempre centrato, operante qui nella suggestione della metafora (un maniero che pare il Grande fratello orwelliano) e nella visionarietà dell’onirico.
Riservato per scaramanzia sui prossimi progetti (dalla cronache risulta in fase di progettazione un biopic su Maria Callas interpretato da Angelina Jolie e scritto da Steven Knight, già sceneggiatore di Spencer), Larraín chiude un incontro di cinema che dà prova di intraprendenza creativa da parte un regista in grado di far dialogare la Storia con le storie e di attraversare produzioni nazionali e straniere conservando intatta la sua originale poetica.