Niente è più penoso e invalidante dell’essere confinati in un mondo impenetrabile bilateralmente sia da dentro che da fuori, creato dall’incapacità di accedere, gestire e comunicare il proprio sentire. È dalla sensibilità di Ben Lewin, già sperimentata con il suo ottimo The sessions (2012), nel quale il regista si cimentava nel trattare il tema non certo facile della sessualità di un disabile, che viene fuori Please stand by, presentato alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Alice nella città: un’altra piccola opera che nella sua semplicità denota particolare delicatezza e non così comune capacità di maneggiare argomenti complessi e spinosi come la malattia mentale, per quanto abbondantemente presi in considerazione quali soggetti di narrazione. In questo caso è l’autismo, il disturbo dal quale è affetta la protagonista del film, una notevolissima e forse inaspettata Dakota Fanning, che si distacca in modo più che dignitoso dalla figura per la quale è più conosciuta al grande pubblico, quello della bionda bimba dagli occhi azzurri che insieme a Tom Cruise e a Sean Penn, ha interpretato grandi titoli come La guerra dei mondi e Mi chiamo Sam, dimostrando non solo di essere cresciuta, ma di aver arricchito la sua dotazione di virtù che vanno decisamente oltre l’aspetto fisico, se vogliamo neanche più così preponderante, di qualità molto più pregevoli, quali l’acquisizione di ottime facoltà di interpretazione, di incisività e capacità di rendere naturale e autentico il suo personaggio. Autismo che è certamente funzionale al proposito di riflettere su determinati aspetti che lo riguardano, ma che può considerarsi tranquillamente uno dei tanti esempi di disturbo mentale che produce significative distorsioni comunicative e enormi difficoltà relazionali e che, in questo caso, costituisce un ottimo pretesto per porre lo sguardo su una prospettiva che può essere molto più ampia e non riconducibile soltanto a tale disturbo.
Lewin osserva con discrezione, dando modo allo spettatore di riflettere su elementi che non vengono mai considerati abbastanza con un linguaggio fruibile e leggero ma mai superficiale, senza banalizzarli. L’estrema difficoltà, quando non la totale impossibilità, di entrare in contatto e maneggiare le proprie emozioni, tipica di tante condizioni di sofferenza mentale, che è un dolore infinito prima di tutto e soprattutto per chi ne è portatore, si traduce spesso in comportamenti incomprensibili, inadeguati e apparentemente senza senso che si identificano più in un problema per gli altri che non per chi li vive. Sono comportamenti che determinano nella maggior parte dei casi un senso di estraneità e dei disagi concreti nel capire e nell’entrare in condivisione con chi è così sofferente, oltre a produrre delle oggettive difficoltà pratiche che diventano in qualche modo e egoisticamente primarie superando l’empatia verso quel dolore e provocando così la rinuncia a fare lo sforzo, peraltro durissimo ma non per questo inutile, di relazionarcisi e inducendone l’allontanamento e la solitudine con conseguente ulteriore dolore e peggioramento sia dei sintomi che dello stato d’animo. È un circolo vizioso tristissimo, senza fine, riconoscibile, se solo ci si ponesse nelle condizioni di rifletterci con un minimo di apertura mentale e di sensibilità, da chiunque abbia avuto contatti con chi soffre in questo modo. Così, le persone stesse che si sentono diverse nel non essere in grado di comunicare, distanti dagli altri, aliene, incapaci di trovare una dimensione di contatto, si allontanano da tutti, isolandosi progressivamente. Ed è esattamente così, aliena, che si sente Wendy, un’adolescente autistica ospite di una struttura specializzata, che compie in modo istintivo e naturale la straordinaria impresa di trovare esattamente nella propria diversità, la strada per accedere a se stessa e per comunicare con il mondo. Wendy nel suo essere rigida e inaccessibile, nel suo vivere di abitudini regolari e imprescindibili, ha due grandi passioni, Star Trek e la scrittura. E una ragazza che non regge un contatto visivo di più di tre secondi, che pur facendo un paragone azzardato, nel suo indossare tutti i giorni uno stesso maglione ma di colore diverso ricorda in qualche modo la poesia della quotidianità regolare del Paterson di Jim Jarmusch, decide di scrivere la sceneggiatura di un episodio della sua saga preferita, per poter partecipare a un concorso di scrittura indetto dalla Paramount Pictures e vincere il premio pecuniario che le consentirà di andare a vivere insieme alla sorella maggiore, la quale, impossibilitata o incapace di occuparsene, dopo la morte della madre, la ha allontanata per paura che potesse nuocere alla sua bambina. Wendy conserva il desiderio dolce e orgoglioso di poter conoscere la nipotina e, pur di raggiungere il suo scopo, sceglie di mettere in discussione e rinunciare alla sicurezza di tutti i suoi rituali e intraprendere insieme al suo cagnolino, unico essere vivente con il quale ha un contatto affettivo reale ed esplicito, un viaggio per lei difficilissimo, per consegnare a mano la sceneggiatura che non ha fatto in tempo a spedire.
Quindi, utilizza degli elementi classici, forse prevedibili, Lewin, il viaggio a piedi, il cagnolino, che avrebbero potuto risultare banali, ma li gestisce in modo ammirevole, facendone scaturire un’essenza fresca e vitale fatta di idee tutt’altro che scontate e soprattutto estremamente efficaci. Da sottolineare, inoltre, come Lewin non scada in facili sentimentalismi e nel melodramma, Wendy non guarisce, non vince il concorso, non va a vivere con la sorella. La sua creatività la porta dove vuole arrivare, dimostra a lei, agli altri e a noi come essa sia e sarà sempre la sua forza e l’unico modo di avvicinarsi agli altri, di non rimanere confinata nella solitudine, accontentandosi delle certezze del suo mondo limitato; ma questo suo successo non sminuisce né mette in ombra o risolve per magia le difficoltà che dovrà sempre affrontare.
Così, è nella lingua aliena del suo personaggio prediletto Spock, metà umano e metà alieno, proprio come lei, che Wendy trova il suo linguaggio, trova il modo di esprimersi attraverso un mezzo, la scrittura, che le consente di mantenere la “giusta” distanza dalle persone, quella che è in grado a gestire e, contemporaneamente, di mettere in gioco quello che sente, riuscendo così a esprimere il desiderio di essere come gli altri, la frustrazione del non esserlo e la tragica consapevolezza che non lo sarà mai. Wendy crea uno Spock che fa una commovente ricerca scientifica su tutte le barzellette mai inventate per poter poi trovare l’equazione della comicità, e così arrivare a capire come sorridere, e, nel tristissimo finale, la frase più toccante: racconta che una volta trovata la strada, Spock viene pervaso dalle sue emozioni “che lo faranno a pezzi”. E da un’unica frase apparentemente innocua che emerge tutta la paura, il terrore di quel sentire, l’impotenza nel sapere che non sarà mai in grado di accedervi e di maneggiarlo senza farsene distruggere.
Quello che questo dolce racconto comunica forte e chiaro, nella determinazione di Wendy, nella sua forza, nell’energia e nel coraggio con i quali mette a rischio le sue certezze per raggiungere il suo obiettivo, è ciò che si dovrebbe dire, ribadire continuamente, ricordare ogni volta che non è evidente, scrivere sui muri, urlare: il fatto che quella emotività sia inaccessibile non significa che non esista, che non sia enorme, forse proprio perché compressa e confinata lì dentro, non sia più forte di quella degli altri. Cosa che dovrebbe farci essere ancora più sensibili e comprensivi nei confronti di chi non è in grado di esprimere ciò che sente perché prigioniero di se stesso e di conseguenza lontano dagli altri, solo. E non dovremmo mai scordare che ciò è molto più doloroso per lui che per noi, che è enormemente maggiore la frustrazione e la pena di chi è così lontano da se stesso e dagli altri di quella derivante da ciò che quel qualcuno non è in grado di dare a noi. Lo è molto di più per chi è schiavo del non sentirsi, del non poter comunicare, del non poter mai avere un senso di appartenenza, del non potersi mai sentire insieme a qualcuno senza provare rabbia, senza rischiare di fargli male e poi dover essere allontanati e vagare in giro nello spazio come stelle luminose senza meta, che brillano da sole cercando un posto che gli appartenga, come lo Spock di Wendy.