Se la questione della violenza sulle donne è uno dei temi del quale più si discute nel tentativo anche legislativo di combattere il dilagare di una simile piaga, non sorprende che anche il mondo del cinema manifesti attenzione nei confronti del problema. A sorprendere è semmai il coraggio di taluni cineasti, capaci di prendere di petto l’argomento, evitando di diventarne semplice cassa di risonanza ma, al contrario, proponendo punti di vista inediti e per certi versi addirittura provocatori. Così se nel circuito ufficiale ci pensa Tom Ford e il suo Animali notturni a sparigliare le carte con la storia di un doppio femminicidio, che all’insegna del politicamente scorretto finisce per annullare la distanza tra vittime e carnefici, in quello cinefilo e festivaliero è Claudio Casazza a mantenere alto il profilo della discussione grazie a un film come Un altro me, selezionato in qualità di film d’apertura della 57 ma edizione del Festival dei popoli in corso in questi giorni a Firenze. Il lungometraggio di Casazza è infatti il resoconto filmato di un anno di lavoro svolto da un equipe di psicologi, criminologi e terapeuti impegnati nel recupero di detenuti condannati per reati sessuali la cui finalità è quella di evitare l’eventualità di ulteriori ricadute.
A differenza del collega americano, Casazza si muove su una linea più tradizionale sia per quanto riguarda la forma, modulata su una tipologia di documentario scevra da quelle declinazioni poetiche e creative che così bene hanno figurato nei lavori dei vari Pietro Marcello e Roberto Minervini, sia per ciò che concerne i contenuti, di fronte ai quali il regista assolve una funzione testimoniale che non entra mai in contraddizione con l’assunzione di responsabilità certa e definitiva da parte dei colpevoli. A ricordarcelo durante la visione non sono solo le parole degli educatori che all’interno del film hanno la funzione di ristabilire la realtà dei fatti rispetto all’interpretazione che di essi viene data da parte dei loro “pazienti”, ma anche la scelta del regista di mostrarci i detenuti con il volto sfocato, a rimarcare un’anomalia che va al di là di ogni privacy e che materializza come meglio non si potrebbe la vergogna dichiarata dai protagonisti per i delitti di cui si sono macchiati.
A fare la differenza in Un altro me e a produrre lo scarto rispetto a quanto lo ha preceduto è uno sguardo che si affaccia sugli abissi dell’indicibile e riesce a dargli voce senza omissioni né censure, eppure in grado di mettere in luce l’umanità del male – quello che gli stessi carnefici si riconoscono nel corso delle loro disquisizioni – senza mancare di rispetto o diminuire il dolore inferto alle donne che lo hanno subito, che infatti partecipano – attraverso le dichiarazioni di una loro rappresentante – quando si tratta di raccontare (all’uditorio) degli abusi sofferti non come atto di accusa ma per stimolare il processo di consapevolezza messo in piedi dall’istituto di detenzione. Lungi dall’offrire soluzioni definitive al problema, Un altro me è il transfert cinematografico di un esperimento sul campo che, come tale, si fa carico della fragilità emotiva che si accompagna alla mancanza di certezze sugli esiti del trattamento curativo. In fondo la modernità del documentario di Casazza consiste proprio nel trasformare lo schermo in uno spazio di confronto e d’interrogazione aperto a ogni possibile risposta.
Carlo Cerofolini